Santa Perpetua e Santa Felicita

Perpetua, Felicita, Saturnino, Revocato e Secondulo (Menologio di Basilio II) – Wikipedia, pubblico dominio

 

 

 

Santa Perpetua Martire

7 marzo – Memoria

Martire a Cartagine il 7 marzo 203

Arrestate ancora catecumene, Perpetua, ventiduenne madre di un bimbo ancora lattante, e la sua giovane schiava Felicita, anche lei madre di una bimba nata in carcere, furono battezzate nell’imminenza del supplizio. Come ricordano gli Atti del martirio (opera di Tertulliano), insieme andarono incontro alla morte come ad una festa. (Mess. Rom.)

Etimologia: Perpetua = fede immutabile, dal latino

Emblema: Palma

Mosaico di Santa Perpetua nella Basilica di Eufrasio a Porec in Croazia – Wikipedia, pubblico dominio

Chiusa in carcere aspettando la morte, tiene una sorta di diario dei suoi ultimi giorni, descrivendo la prigione affollata, il tormento della calura; annota nomi di visitatori, racconta sogni e visioni degli ultimi giorni. Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203: chi scrive è la colta gentildonna Tibia Perpetua, 22 anni, sposata e madre di un bambino. Nella folla carcerata sono accanto a lei anche la più giovane Felicita, figlia di suoi servi, e in gravidanza avanzata; e tre uomini di nome Saturnino, Revocato e Secondulo. Tutti condannati a morte perché vogliono farsi cristiani e stanno terminando il periodo di formazione; la loro “professione di fede” sarà la morte nel nome di Cristo. Le annotazioni di Perpetua verranno poi raccolte nella Passione di Perpetua e Felicita, opera forse del grande Tertulliano, testimone a Cartagine. Il racconto segnala le pressioni dei parenti (ancora pagani) su Perpetua e su Felicita, che proprio in quei giorni dà alla luce un bambino. Per aver salva la vita basta “astenersi”. Ma loro non si piegano.
Questo accade regnando l’imperatore Settimio Severo (193-211), anche lui di origine africana, che è in guerra continua contro i molti nemici di Roma, e perciò vede ogni cosa in funzione dell’Impero da difendere; e tutto vorrebbe obbediente  e inquadrato come l’esercito. Con i cristiani si è mostrato tollerante nei primi anni. Ma ora, in questa visione globale della disciplina, che include pure la fede religiosa, scatena una dura lotta contro il proselitismo cristiano e anche ebraico. Cioè contro chi ora vuole abbandonare i culti tradizionali. Per questo c’è la pena di morte: e morte-spettacolo, spesso, come appunto a Cartagine. Perpetua, Felicita e tutti gli altri entrano nella Chiesa col martirio che incomincia nell’arena, dove le belve attaccano e straziano i morituri. E poi c’è la decapitazione.

Perpetua vive l’ultima ora con straordinarie prove di amore e di tranquilla dignità. Vede Felicita crollare sotto i colpi, e dolcemente la solleva, la sostiene; zanne e corna lacerano la sua veste di matrona, e lei cerca di rimetterla a posto con tranquillo rispetto di sé. Gesti che colpiscono e sconvolgono anche la folla nemica, creando momenti di commozione pietosa. Ma poi il furore di massa prevale, fino al colpo di grazia.

Nei Promessi sposi, il Manzoni ha chiamato Perpetua la donna di servizio in casa di don Abbondio; e il nome di quel personaggio letterario così fortemente inciso è passato poi a indicare una categoria: quella, appunto, delle “perpetue”, addette alla cura delle canoniche. Cesare Angelini, il grande studioso del Manzoni, ritiene che egli abbia tratto quel nome dal Canone latino della Messa, “dov’è allineato con quelli dell’altre donne del romanzo: Perpetua, Agnese, Lucia, Cecilia…”.

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Stralcio testo tratto dalla pagina: musicasacra.forumfree.it sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

 

 

Santa Felicita Martire

7 marzo – Memoria

Martire a Cartagine il 7 marzo 203

Etimologia: Felicita (come Felice) = contento, dal latino

Emblema: Palma

Insieme con san Cipriano, le sante Perpetua e Felicita rientrano nel numero dei martiri africani più illustri, tanto nell’Africa stessa quanto, più in generale, in Occidente. Qualche anno dopo, Tertulliano ricordava la martire Perpetua (Sull’anima, 55, 4). In Africa, più tardi, gli Atti del suo martirio (che ci sono pervenuti nella forma di una grande Passione del III secolo e di Atti più brevi, composti probabilmente nel corso del IV secolo) godevano di una tale fortuna che sant’Agostino, facendo allusione alla sorte di Dinocrate, il fratello di Perpetua, pensava di dover mettere in guardia i fedeli africani: «La storia di Dinocrate, il fratello di santa Perpetua, non fa parte delle Scritture canoniche» (Natura e origine dell’anima, I, X, 12). Il vescovo di Ippona fa riferimento alla passione delle due martiri nei Sermoni (280-282) che pronuncia in occasione della loro festa, celebrata a Cartagine il 7 marzo, durante la Quaresima.

 
Sappiamo da Vittore di Vita (Storia della persecuzione vandala, I, 9) che la Basilica Maiorum custodiva, con altri, i corpi delle sante Perpetua e Felicita: un’iscrizione di epoca bizantina che menziona Perpetua e Felicita è stata ritrovata a Cartagine nella grande basilica funeraria di Mcidfa, che si pensa perciò di poter identificare con la Basilica Maiorum. Pure a Cartagine, si possono ancora leggere i nomi delle due sante e dei loro compagni in alcuni mosaici in forma di medaglioni, provenienti da monastero di Santo Stefano, e probabilmente anche in un affresco del battistero sotterraneo di Saida.

Se, fuorché a Cartagine, non si trova traccia del culto reso in Africa alle due sante, esso è però passato molto presto in Italia e in Spagna: l’anniversario del loro martirio, alla data del 7 marzo, è ricordato nella Depositio martyrum, calendario romano del IV secolo. La visione di Perpetua è rappresentata su un sarcofago di Bureba (nella regione di Burgos) della metà del IV secolo, e le due sante fanno parte del corteo trionfale dei martiri in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e nella basilica di Parenzo, del IV secolo. Infine, i nomi di tutti i membri del gruppo raccolto intorno a Perpetua e Felicita compaiono nel Martirologio geronimiano, nel giorno della loro festa.

La prigionia delle sante Perpetua e Felicita e dei loro compagni, i preliminari del martirio e il martirio stesso sono narrati in una Passione che è spesso considerata l’archetipo delle Passioni di martiri cristiani. Da questa Passione propriamente detta si devono distinguere degli Atti più brevi, che sono stati redatti successivarnente, prima della fine del IV secolo, giacché sembrano essere stati conosciuti da sant’Agostino: quest’ultimo, infatti, riprende o commenta certi giochi di parole (in particolare sui nomi delle due martiri: «felicità perpetua») che compaiono nel testo breve ma non nella Passione. Bisogna segnalare anche altre differenze, più importanti: per esempio si trova negli Atti un lungo interrogatorio dei prigionieri ad opera del magistrato romano, interrogatorio al quale la Passione dedica appena un cenno, assegnando per di più a magistrato un nome diverso da quello che leggiamo negli Atti. Il testo di questi ultimi presenta alcune corruzioni e interpolazioni, ma su una base che pare autentica e che pertanto può essere stata una fonte indipendente e parallela rispetto alla grande versione conservata. Questa redazione breve doveva verosimilmente servire nella lettura liturgica, per la quale era necessaria una maggiore concisione.

Anonimo (Polonia) – Maria con Bambino e sante Felicità e Perpetua (Sacra Conversazione). – Wikipedia, pubblico dominio

La composizione della Passione di Perpetua e Felicita

La Passione propriamente detta è un documento composito, elaborato probabilmente poco dopo il martirio, dunque nei primi anni del III secolo. All’interno del testo si possono distinguere quattro parti. Anzitutto, una prefazione di stile a un tempo oratorio e «pneumatico», della quale è stato spesso sottolineato il carattere «montanista» e «illuminista», seguita da un breve capitolo in cui il redattore anonimo presenta i cinque catecumeni arrestati, per dare subito dopo la parola a Perpetua, riproducendo ciò che ella avrebbe secondo lui, scritto «di sua mano». Questa seconda parte (il racconto di Perpetua) narra ciò che avvenne dopo l’imprigionamento, gli sforzi di suo padre per allontanarla dalla fede, e soprattutto le quattro visioni che ella ebbe in carcere. Il racconto si interrompe la vigilia dei giochi nell’anfiteatro e si conclude con le seguenti parole: «Questo è ciò che ho fatto fino alla vigilia dei giochi; quanto a ciò che accadrà durante i giochi stessi, se qualcuno vorrà, lo scriva». Dopo una frase di transizione inserita dal redattore, troviamo in terzo luogo un breve racconto del catechista Saturo, che rivela una visione del paradiso ch’egli ha avuto in prigione; il redattore afferma esplicitamente che questo racconto è stato scritto da Saturo stesso. La quarta e ultima parte della Passione narra infine i giochi nell’anfiteatro, in cui i cinque martiri furono messi a morte, e il testo si conclude con una breve benedizione dei beati. Almeno in apparenza, il redattore anonimo dei primi due capitoli e delle frasi di collegamento è anche l’autore dell’ultima parte.

Testi di così grande ricchezza pongono almeno tre problemi:

  1. Dal momento che alla versione in lingua latina conosciuta fin dal XVII secolo si è aggiunta una versione greca scoperta alla fine del secolo scorso, si tratta ora di sapere quale sia la versione originaria del testo nella sua totalità ovvero dell’una o dell’altra delle sue parti.
  2. Chi è il redattore anonimo della Passione? Può essere identificato con uno scrittore a noi noto di quell’epoca?
  3. I racconti dei martiri (in particolare le visioni di Perpetua e di Saturo) sono autentici, oppure si tratta di finzione letteraria?

La lingua originale della Passione

La prima questione, quella della lingua, è stata molto dibattuta e non è possibile entrare qui nei particolari di una discussione specialistica, nella quale tutte le tesi e soluzioni possibili sono state esposte e confutate una dopo l’altra: si è persino giunti a proporre l’ipotesi che le due versioni, greca e latina, fossero traduzioni di un originale punico! Tuttavia, fin dal Duchesne, i sostenitori della tesi di una versione originale in latino non hanno avuto troppa difficoltà a individuare, nelle diverse parti del testo – e in particolare in quelle dovute al redattore anonimo e a Perpetua -, molti passi nei quali, a termini tecnici o istituzionali, o a giochi di parole (per esempio l’acclamazione saluum lotum, «salvato, lavato», che il pubblico rivolge a Saturo coperto di sangue per il morso del leopardo), che appaiono naturali e appropriati nel testo latino, corrispondono nella versione greca degli equivalenti approssimativi, come se un traduttore greco avesse frainteso il latino o piuttosto trovato difficoltà nel tradurlo. Si osservano inoltre nel testo greco dei doppioni o delle glosse, come se un traduttore avesse esitato fra due traduzioni e avesse infine conservato l’una e l’altra. Questi argomenti, e altri ancora, hanno determinato in una larga maggioranza di studiosi (in particolare P. Franchi de’ Cavalieri e H. Leclercq), la convinzione che il latino fosse la lingua originale della Passione nel suo complesso. Ma la discussione non è chiusa, e un solo esempio sarà sufficiente a far intravedere le difficoltà che essa presenta. Nella visione di Saturo, i martiri incontrano in paradiso il loro vescovo Ottato e un prete, Aspasio; il testo latino dice che Perpetua conversò con loro in greco: et coepit Perpetua graece rum illis loqui. Secondo P. Monceaux, ciò significava che ella parlava ordinariamente quella lingua, e rendeva verosimile che avesse redatto in greco la sua relazione autografa. Il Duchesne, tuttavia, faceva osservare che questa indicazione della lingua allora usata da Perpetua si trova anche nel testo greco, il che sarebbe strano se la versione greca fosse la versione originale. È stata di recente proposta una terza interpretazione di questo medesimo particolare: nella sua visione Saturo si raffigurava la conversazione di Perpetua con i due preti in greco perché egli stesso era di lingua greca, e sottolineava il fatto che Perpetua si esprimesse in greco nel sogno perché la lingua ordinaria di questa era il latino! Riprendendo la questione nel suo complesso, l’autore di questa spiegazione chiamava la metrica in appoggio agli strumenti filologici già impiegati per esaminare le due versioni in maniera comparativa, e pronunciava il suo verdetto: mentre il redattore anonimo e Perpetua avevano scritto le loro parti in latino, soltanto Saturo aveva scritto o dettato in greco il racconto della sua visione, che fu molto presto tradotto in latino; successivamente si tradussero in greco le due parti latine della Passione, per giungere finalmente al testo bilingue che noi possediamo.

Si può aggiungere, per concludere il discorso sul problema linguistico, che le tesi e i commenti qui sopra ricordati non esauriscono una così complessa questione: chi legge la versione latina vi nota molte parole greche, che non sono certo del tutto inattese in questa prosa «spontanea», riflesso a un tempo di una metropoli come Cartagine, cosmopolita, e di un ambiente cristiano fortemente ellenizzato, ma il cui esatto valore ci lascia talora perplessi. È il caso, per esempio, di quella parola greca latinizzata, tegnon, «figlia mia», di cui si serve il pastore quando dà il benvenuto a Perpetua.

L’autore della Passione

Il fatto che gli studiosi siano generalmente d’accordo sull’impiego del latino come lingua originale della Passione, per lo meno per quanto riguarda le parti dovute al redattore anonimo, conferisce una incontestabile pertinenza alla seconda questione, concernente l’identità di questo redattore.

Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, 160-220, padre della chiesa e teologo – Wikipedia, pubblico dominio

Si è da molto tempo pensato a Tertulliano: è possibile, in realtà, che questi abbia conosciuto i martiri, e sia stato addirittura testimone oculare della loro passione, della quale egli parla almeno una volta (Sull’anima, 55, 4). Si sa inoltre che Tertulliano si volse molto presto al montanismo, al cui rigorismo aderì proprio in quei primi anni del III secolo, all’epoca del martirio e dell’elaborazione della Passione. Ora, si è creduto di poter individuare nel prologo e nella conclusione della Passio Perpetuae delle formule e degli elementi lessicali che presenterebbero indiscutibili tendenze montaniste, in particolare nell’esaltazione del martirio e nel riconoscimento del valore delle «visioni nuove» al pari di quello delle profezie. Sarebbe dunque Tertulliano che, senza modificare i racconti di Perpetua e di Saturo, li avrebbe prolungati con una parte narrativa e avrebbe inserito il tutto fra un prologo e un epilogo.

L’attribuzione a Tertulliano, tuttavia, se è ancora accettata da H. Oelehaye, per lo meno per quanto concerne la prefazione e la conclusione, è stata il più delle volte confutata dagli specialisti di Tertulliano.

Già P. Monceaux dubitava della validità di questa attribuzione, che è poi stata chiaramente respinta da R. Braun, la cui analisi non lascia sussistere nessuna delle ragioni filologiche – e in particolare delle concordanze di pensiero e degli accostamenti lessicologici – che sono in genere addotte in favore dell’attribuzione a Tertulliano: di quest’ultimo non si ritrova nella Passione neppure l’impronta così peculiare della sua arte sapiente e dello stile a un tempo denso, nervoso e affannoso. Se non ci si vuole rassegnare a ignorare il nome del redattore, la congettura più verosimile, secondo R. Braun, consisterebbe nel proporre quello del diacono Pomponio, che è più volte menzionato da Perpetua e che ha avuto per lei un’importanza considerevole: nella sua ultima visione, infatti, ella lo presenta come il suo maestro e come colui che l’ha avviata alla gloria del martirio.

L’autenticità dei racconti di Perpetua e di Saturo

In tutta la letteratura agiografica, non ci sono molti testi ricchi di tanta freschezza e spontaneità quanta ne mostrano le parti narrative della Passione di Perpetua e Felicita. Pertanto la questione dell’autenticità dell’opera non si è mai posta per i primi editori, e se il demone dell’ipercritica ha talora tentato qualche commentatore, come Ed. Schwartz, si è in genere riconosciuto nella Passione un documento storico di prim’ordine, una testimonianza straordinariamente viva del vigore e del clima spirituale della giovane Chiesa africana tra il II e il III secolo. Citiamo un eccellente conoscitore dell’opera, H. Delehaye: «In tutte le sue parti, il racconto è particolarmente avvincente. L’assenza di ricercatezza, la vivacità delle impressioni, la chiarezza dell’esposizione, il calore del sentimento, tutto vi contribuisce ad affascinare il lettore, e non c’è bisogno di altra prova per dimostrare il valore e la sincerità di un testimone». La testimonianza è anzitutto autobiografica. Il racconto di Perpetua è un diario dal carcere nel quale, in uno stile semplice, senza alcun artificio retorico, la giovane donna parla dapprima delle sue difficoltà e delle sue angosce. Difficoltà morali e familiari, in primo luogo: la tortura iniziale subita da Perpetua è la separazione radicale da tutti i suoi mentre ella è ancora catecumena – separazione della quale, per di più, suo padre la considera colpevole -, e più ancora forse la collera che, in un primo tempo, nutre contro di lei il padre, rimasto l’unico pagano della famiglia «Allora mio padre, infuriato per questa parola, si gettò su di me per cavarmi gli occhi», prima di assumere un atteggiamento supplichevole e accorato che non è per Perpetua la minore prova morale «Mi diceva queste parole, che venivano davvero dal suo affetto di padre, baciandomi le mani e gettandosi ai miei piedi, e tra le lacrime non mi chiamava più figlia, ma padrona». E poiché il padre, in un ultimo tentativo di salvarla contro la sua volontà, era salito sul palco dove il procuratore la interrogava, ella ebbe il dolore di vederlo espulso brutalmente e percosso con una verga «Provai dolore per ciò che era capitato a mio padre come se io stessa fossi stata percossa: tale fu il dolore che provai per la sua infelice vecchiaia».

La vita dei martiri nella prigione è ricordata e descritta in modo veramente efficace. Poco dopo l’arresto, i catecumeni, ben presto battezzati, sono chiusi in carcere a Cartagine, in una segreta buia e oppressa da un calore soffocante (in quell’estate dell’anno 202 la cui canicola è resa ancor più pesante dall’ammassarsi dei prigionieri), sorvegliata da carcerieri che estorcono ai martiri i loro pochi denari. Fortunatamente, due diaconi di Cartagine, Terzio e Pomponio, si adoperano per alleviare un poco la loro sorte. Perpetua, dal canto suo, è «torturata dall’inquietudine» per il suo bambino, che deperisce e che ella allatta come può; ella lo affida alla propria famiglia, poi ottiene il permesso di tenerlo con sé in prigione, e ciò la rasserena immediatamente: «Fui liberata dalla mia pena e dall’inquietudine per il bambino, e di colpo il carcere divenne per me una dimora principesca, tanto che preferivo trovarmi là che in qualsiasi altro luogo».

Le visioni di Perpetua

Fin da quel momento, Perpetua si trova in una disposizione d’animo propizia alle visioni. Uno dei suoi fratelli, anch’egli cristiano, intuì questa ricettività spirituale, tanto che fu all’origine della prima apparizione: «Allora mio fratello mi disse: “Sorella venerata, grandi sono ormai i tuoi meriti, tanto che puoi chiedere la grazia di una visione e che ti sia rivelato se tu sia destinata al martirio o alla liberazione» . Per desiderio del fratello, dunque, Perpetua prega e riceve quella che, delle sue quattro visioni, è la più luminosa, la più ricca di immagini e simboli che si sono nutriti della più antica tradizione dell’iconografia cristiana e l ‘hanno alimentata a loro volta.

Se infatti non c’è motivo, come abbiamo visto, di considerare questi testi come una finzione di cui sarebbe autore il redattore anonimo della Passione, ciò non toglie che essi siano pervasi da tutta una cultura biblica assimilata attraverso la lettura liturgica e la lettura personale. In tale cultura trovava posto la letteratura apocalittica, e al suo interno il libro del Pastore di Erma, anteriore di qualche decennio al martirio delle sante cartaginesi. Non molto apprezzato da Tertulliano, che da montanista qual era lo giudicava «lassista», lui stesso però ci dice che quest’ opera era allora letta negli ambienti cristiani della capitale africana. Il carisrna concesso a Perpetua pochi giorni prima della sua passione ha attinto più o meno coscientemente a questo sostrato, del quale si vedono impiegati gli archetipi immaginari: la scala che tocca con la sommità il cielo e ai piedi della quale è in agguato un dragone «di straordinaria grandezza», la figura del Buon Pastore. Ma la visione della giovane cartaginese aggiunge dei particolari al referente in questione e lo arricchisce: i montanti della scala sono irti di strumenti di ferro taglienti che accrescono le difficoltà e il pericolo dell’ascesa; il Buon Pastore amministra la comunione a Perpetua in un modo molto singolare, nella forma di un boccone di formaggio (o di latte cagliato) la cui dolcezza, nella bocca della giovane, sopravvive alla visione: probabilmente a torto si è creduto talora di potere scoprire un elemento (montanista in questo sacramento, vedendovi un rapporto con gli artotyrites di cui parla sant’Epifanio, una setta imparentata per le sue origini al montanismo, che aveva istituito una pseudo-eucarestia con pane e formaggio (in greco: artos tyròs), ma molto più tardi, nella seconda metà del IV secolo, e in Asia Minore. Di carattere completamente differente sono la seconda e la terza visione di Perpetua, che costituiscono in realtà una duplice visione concernente suo fratello Dinocrate e che presentano un tono molto personale, tanto che qualcuno si è arrischiato a darne un ‘interpretazione psicanalitica. Una notte, il giovane fratello morto all’età di 7 anni per un cancro al viso appare a Perpetua con la ferita aperta, pallido e assetato, vicino a una vasca colma d’acqua, il cui bordo è però troppo alto perché il fanciullo possa bervi. Perpetua prega giorno e notte con lacrime e gemiti perché gli sia concessa la salvezza. Pochi giorni dopo, un’altra visione le mostra, nel medesimo luogo, Dinocrate in buona salute, con la ferita cicatrizzata, risollevato (Passionerefrigerans); il bordo della vasca si era abbassato e il fanciullo, pieno di gioia, vi attingeva senza posa, giocando come fanno molti suoi coetanei: «Allora compresi, aggiunge Perpetua, che era stato liberato dalla pena».

Il significato allegorico di questi due sogni è evidente: la vasca, quella piscina dal bordo in un primo momento troppo alto, è il simbolo della beatitudine eterna nell’aldilà (refrigerium), alla quale il povero Dinocrate non può accedere subito – forse perché non era stato battezzato? Il testo non lo precisa -. Compaiono in questo episodio sia la credenza del limbo sia quella nell’efficacia dell’intercessione dei vivi. I teologi non dovevano tardare, in particolare in ambiente pelagiano, ad appropriarsi del caso di Dinocrate per affermare che i bambini morti senza battesimo potevano aver accesso al regno dei cieli, il che provocò una ferma reazione da parte di sant’ Agostino.

L’ultima visione di Perpetua ci introduce nel luogo in cui avverrà il martirio suo e dei compagni, vale a dire nell’anfiteatro di Cartagine. Non è tuttavia il suo martirio che ella vede in sogno, bensì una scena «agonistica» apparentemente misteriosa, sulla vera natura della quale è stata fatta luce solamente in tempi molto recenti. Il diacono Pomponio, una figura certamente familiare a Perpetua, viene a cercarla per condurla nell’anfiteatro; l’abito bianco e le calzature ricamate che egli indossa nel sogno lo trasformano in un altro personaggio, in un dignitario dei giochi di epoca imperiale, l’eisagogòs, che introduceva solennemente i concorrenti nell’arena. Qui si tratta di un combattimento che oppone Perpetua a un Egiziano – una figura simbolicamente demoniaca -, ma non è un combattimento di gladiatori, come si è spesso creduto.

Mentre i due concorrenti si preparano, sopraggiunge un uomo «di statura straordinaria», riccamente abbigliato con una veste di porpora, con calzature ricamate d’oro e d’argento: si deve riconoscere in lui un agonoteta, vestito come i dignitari che presiedevano i grandi agoni greci nell’esercizio della loro carica. Questo personaggio tiene in mano la bacchetta dell’arbitro e soprattutto un ramo verde con pomi d’oro. A Perpetua che trionfa sull’egiziano egli consegnerà il ramo della vittoria con i suoi pomi, nient’altro che la ricompensa tradizionalmente assegnata al vincitore della lotta – o più precisamente del pancrazio – nelle gare dei Pythia, gare che, a quanto ci dice Tertulliano (Scorpiace, 6), furono organizzate per la prima volta a Cartagine all’inizio del III secolo. Dunque i ricordi ancora ben vivi di un combattimento (ag6n) reale hanno arricchito la visione di Perpetua – visione che essi dimostrano sicuramente autentica – con alcuni personaggi trasfigurati dalla trasposizione allegorica: il diacono-eisagogòs, il pancraziaste egiziano demoniaco (e si sa che effettivamente gli Egiziani erano specializzati nella lotta e nel pugilato), infine il Cristo-agonoteta che dà a Perpetua la certezza della vittoria, non sulle fiere ma sul diavolo, nel combattimento che ella deve ancora affrontare realmente nell’anfiteatro.

Il martirio di Perpetua, Felicita e Saturo

Nell’episodio finale del martirio ritroviamo Felicita, la cui figura peraltro è messa in ombra da quella di Perpetua e anche da quella di Saturo, il catechista le cui visioni profetiche danno alla Passione il suo pieno significato. Felicita era incinta, e secondo il testo molto afflitta al pensiero che il suo martirio potesse essere rinviato a causa della gravidanza, giacché la legge proibiva l’esecuzione capitale delle donne incinte. Due giorni prima dei giochi, quand’ella era ormai all’ottavo mese di gravidanza, i suoi compagni di carcere si unirono in una preghiera che fu immediatamente seguita dalle prime doglie; e così, dice la Passione, Felicita «mise al mondo una bambina, che una sorella nella fede allevò come fosse sua figlia». !

Quest’ultima parte del testo è preziosa sotto vari aspetti, tanto per le informazioni che fornisce sopra molti particolari istituzionali che riguardano i giochi e i loro preliminari, che per la luce ch’essa getta sull’atteggiamento morale dei martiri, sui loro rapporti con i carcerieri, sui momenti di angoscia attraversati pur nel fervore religioso. Si è osservato, spesso con stupore, che i martiri conversano con i loro guardiani e che essi alternano le concessioni al rigore. Di tale ambiguo dialogo tra la vittima e il suo carnefice, abbiamo qui una delle prime e più complete testimonianze. Per esempio il capocarceriere, il tribuno, generalmente duro con i prigionieri, dopo una battuta ironica di Perpetua concede loro di trasformare l’ultimo pasto, il «pasto libero», in agape aperta ai parenti e agli amici, e anche a un gruppo di curiosi che Saturo apostrofa e tra i quali attua delle conversioni.

La mattina del 7 marzo 203, infine, tutti lasciano il carcere per entrare nell’arena: in questo glorioso corteo, il redattore ha posto in risalto la figura di Perpetua, la «sposa di Cristo», la «prediletta di Dio» (matrona Christi, Dei delicata), e quella di Felicita, «gioiosa di aver partorito senza danno, così da poter combattere contro le fiere, passando dal sangue al sangue, dalla levatrice al reziario, pronta a ricevere, dopo il parto, il bagno di un secondo battesimo». Il Signore, dice il testo, concesse a ciascuno il genere di morte che aveva desiderato. Saturo, che non temeva nulla più dell’orso, ricevette il battesimo del sangue dal dente del leopardo. Egli che, nella prima visione di Perpetua, l’aveva preceduta sulla scala, fu anche il primo a ricevere il colpo di grazia. Il racconto si conclude con l’immagine di santa Perpetua che guida lei stessa contro la propria gola la mano incerta del gladiatore inesperto che era preposto alla iugulatio: una donna siffatta non sarebbe potuta morire, se ella stessa non avesse voluto.

La prima visione di Perpetua

Chiesi la grazia ed ebbi questa visione. Vidi una scala di bronzo di mirabile altezza, che giungeva fino al cielo; ma era stretta e si poteva salire solo uno per volta. Sui lati della scala era fissato ogni genere di strumenti di ferro: c’erano spade, lance, arpioni, lunghi coltelli, spiedi, per modo che se uno saliva incautamente o trascurava di tenere lo sguardo verso l’alto, finiva dilaniato e le sue carni restavano impigliate nei ferri. Ai piedi della scala giaceva un serpente di mirabile grandezza che aspettava al varco chiunque si avvicinava per spaventarlo ed impedirgli l’ascesa. Prima di me salì Saturo (egli si era consegnato spontaneamente per amor nostro: era lui che ci aveva istruito nella fede, ma, al momento dell’arresto, non era stato presente). Giunto in cima alla scala, si girò e mi disse: “Perpetua, ti aspetto. Ma bada che il serpente non ti morda“. Gli risposi: “Non mi farà nulla, in nome di Gesù Cristo”. Il serpente infatti, al fondo della scala, levò il capo assai lentamente, quasi avesse paura di me. Io allora, calcando il suo capo come primo gradino della scala compii l’ascesa. E vidi un immenso giardino, e, assiso nel mezzo, un uomo dalla testa bianca, vestito da pastore, di grande statura, che mungeva delle pecore; e, tutt’intorno molte migliaia di persone bianco vestite. Levò il capo, mi vide e mi disse: “Benvenuta, figlia [nel testo latino, troviamo la parola greca: teknon]. Poi mi chiamò per nome e mi offri un boccone del formaggio che mungeva. Io lo presi a mani giunte e lo mangiai. Tutti i presenti dissero: “Amen”. Al suono di quella voce mi svegliai che ancora masticavo non so cosa di dolce. Ne riferii immediatamente a mio fratello: comprendemmo che sarebbe stato il martirio e deponemmo per sempre ogni speranza in questo mondo».
Passione, in Atti passioni dei martiri.

La quarta visione di Perpetua

La vigilia dei giochi, ebbi questa visione. Vidi il diacono Pomponio giungere alla porta della prigione e bussare energicamente. Andai ad aprirgli: indossava una bianca tunica senza cintura, e sandali molto eleganti. Mi disse: “Perpetua, ti aspettiamo: vieni”. Poi mi prese per mano e ci avviammo per un cammino aspro e tortuoso. Alla fine, tutti trafelati, giungemmo all’anfiteatro. Mi fece entrare nell’arena e mi disse: “Non temere: sono qua io, combatterò con te”. E se ne andò. M’accorsi che c’era una gran folla eccitata, e poiché sapevo di essere condannata alle fiere, mi stupii che non venissero liberate contro di me. Si fece avanti, invece, per affrontarmi in duello, un egiziano d’aspetto ripugnante coi suoi accoliti. Anche a me si avvicinarono dei giovinetti di bell’aspetto, per assistermi e incitarmi. Fui spogliata e divenni uomo. I miei assistenti presero a massaggiarmi con l’olio, come s’usa prima dei combattimenti nell’arena, mentre vedo che l’egiziano si rotola nella polvere. S’avanzò infine un uomo di mirabile statura, più alto ancora del tetto dell’anfiteatro, con veste di porpora senza cintura e, ai lati del petto, due bande verticali; calzava meravigliosi sandali d’oro e argento, e portava una bacchetta da allenatore dei gladiatori e un ramo verde con pomi d’oro. Intimò il silenzio e disse: “L’egiziano, se sarà lui a vincere, ucciderà l’altra con la spada; se invece sarà lei a prevalere, avrà in premio questo ramo”, e si ritirò. L’incontro ebbe inizio, cominciammo a tirarci dei pugni. Quello cercò di afferrarmi i piedi, ma io lo colpii al volto con dei calci. Allora mi sollevò in aria, ma così lo potei colpire ancora meglio, non avendo i piedi impegnati nell’appoggio al suolo. Poi, approfittando di un momento di tregua, congiunsi le mani intrecciando ben bene le dita e lo afferrai alla testa. Quello crollò col volto a terra e io gli calcai la testa sotto il tallone. La folla prese a gridare e i miei accoliti a cantare salmi. Mi avvicinai all’allenatore e presi il ramo. Lui mi baciò e disse: “La pace sia con te, figlia mia”. E io mi avviai tra il tripudio della folla verso la Porta della Vita. Qui mi svegliai. Compresi che non era contro le fiere che avrei dovuto combattere, bensì contro il demonio, ma sapevo che avrei vinto».
Passione, 1-14, in Atti e passioni dei martiri.

Il martirio di Saturo e di Perpetua

Saturo, che si trovava presso un’altra porta (dell’arena), esortava a sua volta la guardia, Pudente, dicendo: “Vedi bene: come avevo sperato e previsto, non una fiera mi ha ancora toccato. E affinché tu ora creda con tutto il tuo cuore, ecco, io ora entro nell’arena e vengo ucciso da un sol morso di leopardo”. E non appena fu esposto al leopardo (i giochi volgevano ormai al termine), perse tanto sangue al primo morso che, mentre lo trascinavano fuori, la folla gli gridò, a testimonianza del suo secondo battesimo: “Salvo e ben lavato! Salvo e ben lavato!”. E certamente poteva dirsi salvo uno che aveva fatto quel genere di bagno. Disse allora a Pudente, la guardia: “Addio, ricordati di me, ricordati della fede: che queste cose non ti turbino, ma ti fortifichino”. E nello stesso tempo si fece dare un anello che portava al dito, lo intinse nella sua ferita e glielo restituì, in eredità, come pegno del suo amore e ricordo del suo martirio. Quindi, ormai privo di conoscenza, fu trascinato con gli altri per essere giugulato, nel luogo a ciò preposto. Ma siccome la folla chiedeva che venissero portati nell’arena […] si levarono spontaneamente e si portarono bene in vista dove li voleva la folla; non prima, però, di essersi scambiati il bacio di rito, così da affrontare il martirio con questo gesto di pace. Gli altri ricevettero il ferro immobili e in silenzio, in special modo Saturo, che, salito sul patibolo prima di Perpetua, prima di Perpetua era spirato (anche in quella circostanza lui la precedeva). Perpetua, invece, per provare almeno un po’ di dolore, quando la spada le arrivò all’osso lanciò un urlo e guidò lei stessa contro la propria gola l’incerta mano del gladiatore inesperto. È da credere che una donna siffatta non avrebbe potuto essere uccisa se essa stessa non l’avesse voluto: tanto grande era il timore che incuteva allo spirito immondo».
Passione, 21, l – 10, in Atti e passioni dei martiri.

Un gruppo di martiri

Perpetua, Felicita e i loro compagni sono così presentati all’inizio del racconto del loro martirio: «Furono arrestati alcuni giovani catecumeni: Revocato e Felicita, sua compagna di schiavitù, Saturnino e Secondolo; con loro anche Vibia Perpetua, di buona famiglia, di ottima educazione, degnamente maritata. Aveva ancora padre e madre, due fratelli, uno dei quali era anch’egli catecumeno, e un figlioletto che ancora poppava; lei, aveva all’incirca ventidue anni» (Passione, 2, 1-3). A questo piccolo gruppo, bisogna aggiungere il nome di Saturo, il catechista, che si consegna spontaneamente più avanti (Passione, 4, 5), e quelli dei personaggi che quest’ultimo menziona nella sua visione come vittime della medesima persecuzione, ma in altre circostanze: Giocondo, un altro Saturnino, Artassio e Quinto (Passione, 1l, 9). Di questo gruppo di martiri, la tradizione ha lasciato gli uomini in ombra per ricordare soprattutto i nomi di Perpetua, la giovane donna di nascita libera e di buona condizione sociale, che ci appare nel suo ambiente familiare, e di Felicita, una giovane schiava, appartenente forse alla casa di Perpetua, cosa che il testo, tuttavia, non precisa; Felicita era incinta, e partorì in carcere una bambina (Passione, 15) il cui padre era probabilmente Revocato…

Stralcio testo tratto dalla pagina: cassiciaco.it sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

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