Nata a Roma nel 1593, Artemisia Gentileschi fu la primogenita del pittore Orazio Gentileschi, un artista pisano vicino alla cerchia di Caravaggio, e di Prudenza Montone, che morì quando la bambina aveva appena dodici anni.
In un mondo in cui la pittura era considerata un mestiere da uomini, Artemisia mostrò fin da piccola un talento straordinario. Orazio, riconoscendo nella figlia una scintilla di genio, le permise di frequentare il suo studio e di imparare l’arte del disegno e del colore, rompendo le convenzioni del tempo.
Nel 1611 la vita di Artemisia fu sconvolta da un evento che avrebbe segnato per sempre la sua esistenza e la sua arte.
Orazio intentò una causa contro Agostino Tassi, pittore e amico di famiglia, accusandolo di aver violentato la figlia.
Le carte del processo, rimaste celebri per la loro crudezza, contengono la testimonianza diretta di Artemisia, che raccontò con coraggio la violenza subita e l’umiliazione di mesi di abusi.
Durante il processo, la giovane fu sottoposta a torture fisiche, come lo schiacciamento dei pollici, per “verificare” la veridicità della sua testimonianza, nonostante il rischio di compromettere per sempre le mani con cui dipingeva.
Nonostante tutto, non ritrattò mai la sua versione dei fatti, e dopo mesi di udienze il tribunale condannò Tassi a diversi anni di carcere.
Era un esito eccezionale per l’epoca: una donna che otteneva giustizia contro un uomo potente.

Artemisia Gentileschi – Autoritratto come martire – Wikipedia, pubblico dominio
Ferita, ma non piegata, Artemisia si trasferì a Firenze e sposò il pittore Pierantonio Stiattesi, nel tentativo di ricostruirsi una vita.
Fu nella città dei Medici che la sua arte raggiunse una maturità sorprendente. Entrò in contatto con le élite intellettuali e fu la prima donna ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, un riconoscimento impensabile per il suo tempo.
Le sue tele, potenti e drammatiche, divennero il linguaggio con cui trasformò il dolore in forza.
Nei suoi dipinti Giuditta che decapita Oloferne, Susanna e i vecchioni, Maddalena penitente, il corpo femminile non è più oggetto di sguardo maschile, ma strumento di riscatto, di azione, di verità.
In Giuditta e Oloferne, la violenza della scena sembra riflettere la ferita personale della pittrice: una donna che, attraverso l’arte, si riappropria del proprio destino.
Negli anni successivi Artemisia visse tra Roma, Genova e Napoli, città dove il suo stile incontrò nuovi influssi, tra cui quello di Bernardo Cavallino, Massimo Stanzione e Francesco Guarino.
La sua fama cresceva, così come le commissioni: era ammirata da principi, collezionisti e intellettuali di tutta Europa.
Tra il 1639 e il 1641 raggiunse il padre in Inghilterra, dove lavorò per la corte di Carlo I e per l’aristocrazia londinese. Tutte le corti volevano conoscere la “pittrice gentildonna”, ormai riconosciuta come un talento pari, e talvolta superiore, a quello dei colleghi uomini.
Si dice che abbia avuto diversi amori, ma quello più intenso fu con il musicista Nicholas Lanier, al quale rimase legata per anni.
Artemisia ebbe due figlie: Prudenzia, nata dal matrimonio con Stiattesi, e Francesca, forse figlia di Lanier. Artemisia le educò come lei all’arte e alla libertà.
Artemisia morì a Napoli nel 1652, sola e quasi dimenticata.
Della sua vita restano 34 dipinti e 28 lettere, testimonianze di un percorso umano e artistico unico, in cui la pittura fu insieme rifugio, riscatto e sfida.
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