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La figura della dea della Giustizia affascina e confonde allo stesso tempo, avvolta com’è in un alone di mistero. Questo è dovuto, in parte, alla varietà di nomi con cui è stata identificata nelle diverse tradizioni mitologiche, greca e romana.
Nella mitologia greca, la Giustizia era chiamata Dike, una delle tre Ore (in greco Horai, in latino Horae), divinità che simboleggiavano non solo il trascorrere delle stagioni, ma anche l’ordine cosmico e sociale. Le Ore erano figlie di Zeus e della titanide Temi, e rappresentavano i pilastri della convivenza civile:
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- Dike – Giustizia
- Eunomia – Buon governo
- Irene – Pace
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Il loro compito era impedire che il mondo umano cadesse nell’anarchia e nel disordine. Con l’influenza romana, le Ore da tre divennero dodici, come le ore del giorno.
Dike incarnava la giustizia collettiva, quella che regola la vita nella polis, la città-stato. I Latini la identificarono con Iustitia, la Giustizia come virtù pubblica, garante dell’equilibrio sociale. Diversamente da Temi, che rappresentava la legge divina e l’ordine eterno, Dike/Iustitia si occupava del mondo umano e delle sue regole.
Il legislatore Solone, arconte di Atene nel 594 a.C., fu tra i primi a tradurre questo ideale in legge. Creò un sistema di giustizia accessibile a tutti, ispirandosi agli oracoli di Delfi. Nella sua visione, la giustizia valeva allo stesso modo per il nobile (agathos) e per il non nobile (kakos), contrastando la pleonexia (l’avidità) e l’hybris (la tracotanza).
Nella mitologia romana, Dike si confonde con Astrea, la vergine divina che abitava la Terra durante l’Età dell’Oro, il tempo in cui gli uomini vivevano in armonia con gli dei, senza guerre né ingiustizie. Questo mito è raccontato da Esiodo nelle Opere e i Giorni: sotto il regno di Crono, gli esseri umani vivevano come immortali, liberi da fatica, malattia e vecchiaia. Tutto era condiviso, la terra offriva spontaneamente i suoi frutti, e nessuno aveva motivo di rubare o combattere.
Roma identificava questo periodo con il regno di Saturno (l’equivalente latino di Crono), e l’Italia si chiamava ancora Ausonia. Era un’epoca di Giustizia e Buona Fede, un mondo senza chiavi né porte, perché il furto non esisteva. Anche Giovenale lo ricorda nei suoi versi: “nessuno temeva i ladri e si viveva con l’orto aperto”.
Ma con l’avvento del regno di Zeus, iniziò il declino: si passò all’Età del Ferro, e l’umanità divenne violenta, empia, corrotta. A quel punto, Astrea, la dea Giustizia, abbandonò la Terra:
“Victa iacet pietas, et Virgo caede madentes,
ultima caelestum, terras Astraea reliquit.”
(“Vinta giace la pietà, e la Vergine Astrea lascia,
ultima degli dei, la terra madida di sangue”)
Ovidio, Metamorfosi, I, 149-150
Astrea si rifugiò in cielo, dove divenne la costellazione della Vergine, simbolo di purezza perduta.
Ma la nostalgia per l’Età dell’Oro non scomparve. Virgilio, nella quarta ecloga delle Bucoliche, annunciava il ritorno di quell’epoca beata con la nascita di un bambino destinato a rigenerare il mondo:
“Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
iam nova progenies caelo demittitur ab alto.”
(“Nasce di nuovo il grande ordine dei secoli.
Già torna la Vergine, tornano i regni di Saturno;
già una nuova stirpe discende dal cielo”)
In queste parole, la Vergine è ancora Astrea, e il suo ritorno simboleggia la speranza di una nuova giustizia, di un mondo riconciliato con le leggi divine e naturali.
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