Nei quartieri popolari della vecchia Palermo, anche se oggi sono scomparsi usi ed antiche tradizioni, permangono ancora alcuni motti che, frequentemente, sono ripetuti pur sconoscendone l’effettivo significato o la lontana origine.
Tra questi è facile udirne uno adottato per canzonare, senza alcuna malizia, le ragazze di questo o di quell’altro rione della città. 
Infatti, quando gli abitanti di un vecchio quartiere vedono passar per la strada tre ragazze che, abbigliate ed impettite, procedono imperterrite sotto lo sguardo degli sfaccendati giovanotti della zona, sono soliti esclamare: “Talia! Li tri donni chi mali ci abbinni (Guarda! Le tre donne alle quali è successo del male). 
Il detto, che è pronunziato soltanto in modo canzonatorio e senza alcun sapore di scherno, trae la sua origine da un remoto e tragico avvenimento risalente alla metà del XIII secolo e che si svolse nel Palazzo Reale di Palermo.

Palermo – Palazzo dei Normanni. (Wikipedia – foto WikiOrso pubblico dominio)

Questo complesso monumentale, così come oggi si presenta nei suoi elementi stilisticamente poco omogenei, testimonia una serie d’eventi storici svoltisi tra le sue mura che, nel corso dei secoli, hanno determinato una continua trasformazione delle sue strutture edilizie. 
Il Palazzo, di sicuro impianto arabo, divenne la residenza dei re normanni dopo la conquista del 1072 e nel XII secolo doveva apparire composto di un gruppo di possenti torri fra di loro collegate, parte d’epoca araba e parte di costruzione normanna: la Pisana, la Gioaria, la Chirimbi, la Greca.

L’edificio conserva ancora un complesso sotterraneo, parzialmente esplorato, costituito da misteriosi cunicoli che, oltre a svilupparsi sotto le fabbriche del palazzo, conducono all’esterno verso direzioni diverse.
In queste oscure gallerie corrispondevano alcuni trabocchetti simili a quello che ancor oggi esiste nella torre Pisana e dei quali, secondo lo storico Fazello, sembra che si servisse, con una certa frequenza, Federico II.
Il grande imperatore di Germania, che fece della corte di Palermo un centro splendido d’intensa vita intellettuale e la culla della prima poesia artistica italiana, in fatto di politica non andava troppo per il sottile.
Infatti, nell’anno 1243, attratte con inganno nel Palazzo le consorti di tre gentiluomini ribelli, Francesco Tebaldo, Guglielmo di San Severino ed un altro patrizio napoletano di cui si sconosce il nome, le fece rinchiudere e forse murare vive in un carcere sotterraneo dove le tre infelici morirono di stenti e di fame.
Il tragico episodio, per la segretezza con cui si svolse, circondò con un alone di mistero la scomparsa delle tre nobili dame.
Soltanto nel 1550, allorquando il viceré De Vega fece eseguire imponenti opere di trasformazione del Palazzo, distruggendone in parte l’aspetto medievale con l’abbassarne le torri, fu chiarito il mistero della scomparsa delle tre donne.

Nel corso delle demolizioni, infatti, fu abbattuta la vicina torre Rossa, che fronteggiava l’antico castello, e che era così denominata perché costruita con mattoni d’argilla. 
Durante l’esecuzione dei lavori furono ritrovati i cadaveri, perfettamente mummificati, delle tre dame, ancora rivestiti con i loro abiti di seta.
L’episodio dovette vivamente impressionare la fantasia popolare e, di certo, a partire da quell’epoca, specie nei quartieri più vicini al Palazzo, quale ad esempio quello dell’Albergheria, il motto delle tri donni chi mali ci abbinni entrò a far parte del pittoresco linguaggio locale.
Dopo più di tre secoli veniva così chiarito il «giallo » delle tre nobili dame misteriosamente scomparse negli oscuri meandri di quel palazzo che nelle sue sale superiori vide gli splendori della corte del grande Federico di Germania.
Ma, evidentemente, il lungo periodo trascorso dalla tragica fine delle consorti dei tre gentiluomini ribelli all’anno del ritrovamento dei loro cadaveri mummificati aveva ormai cancellato il ricordo di quel fosco e misterioso avvenimento.
Il segreto, rigorosamente mantenuto su fatti e circostanze, impedì che l’episodio entrasse a far parte delle tradizioni popolari e che fosse pittorescamente illustrato, nelle vie e piazze dell’antica Palermo, dai caratteristici cantastorie.
Il macabro rinvenimento non fu collegato dagli abitanti dei quartieri vicini al Palazzo con il fatto storico ormai lontano nel tempo; per loro si trattò soltanto di tre donne che ebbero una mala sorte, soltanto di tri donni chi mali cí abbinni.
Oggi si è anche perduta la memoria di questa fosca e tragica vicenda. Il motto di cui abbiamo parlato suole adoperarsi, senza conoscerne l’effettivo significato, non per macabro scherno, ma soltanto per canzonare le prosperose fanciulle dei quartieri popolari di questa nostra vecchia città. Quartieri dove, come si può osservare, dopo tanti secoli, sopravvivono ancora, sia pure inconsciamente, alcune ombre del regno del grande Federico di Germania.

Stralcio testo tratto da Sfruttiamo il web 

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