Cominciamo con lo splendido mare che, secondo antichi confini, orlava a occidente la Lucania.

Donne bellissime che, seducenti, apparivano tra le spume del mare chiedendo con un canto suadente ai marinai di interrompere la loro solitaria navigazione, di indugiare con loro….

Nessuno, meno l’astuto Odisseo, resisteva all’invito – che precedeva una fine crudele – ed il mancato ritorno di tanti marinai, insieme alla dolce ma infame lusinga raccontata dai superstiti, furono premesse formidabili per diffondere il mito delle Sirene, che trova le sue prime origini nella terra degli Arii, incredibilmente lontana nel tempo e nello spazio.

Le sirene e Odisseo. Stámnos attico a figure rosse rinvenuto a Vulci – V secolo a.C. (British Museum). – Wikipedia, pubblico dominio

Ma come poté nascere questa leggenda di sempre?
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Incentrata sull’inesauribile fascino del femminile, essa viene indagata in questo capitolo.

IL MITO DELLE SIRENE

Più delle leggende, delle massime, dei proverbi – di solito nati più tardi- è il mito che, svelato, diventa storia. E, trovandoci in terra lucana, parliamo delle Sirene, due delle quali, secondo Licofrone, Apollonio Rodio ed altri, avevano dimora e culto sulle coste che a questa regione appartenevano secondo i suoi più antichi confini, precisamente a Licosa e a Palinuro-Molpa, mentre altre due ebbero stanza nella penisola di Sorrento e a Napoli.

Premesso che mito vuol dire parola, racconto, “e, in quanto parola, anche narrazione primordiale tratta da un tempo oscuro e mancante di storia, cosa favolosa della quale si parla come esistente, ma che veramente non sia” dobbiamo ammettere che ad esso si attaglia un linguaggio di sogno, mentre assai male rendono rigide parole scritte con la pretesa che possano “squadrare l’animo nostro informe”. Occorre, dunque, un linguaggio di sogno col quale è più facile tentare di esprimere la tendenza primitiva a personificare eventi e fenomeni: e l’uomo lo ha fatto col cielo, col vento, col fulmine ecc., ma anche con quei fatti, con quelle inspiegabili coincidenze che condizionavano la sua esistenza. Tra queste non poteva mancare l’esperienza base della “attrazione e danno” che caratterizzava frequenti situazioni nella sua vita e del mondo attorno a lui: si pensi, ad esempio, a tutte le imprese che, attirandolo col miraggio di conseguire fama e ricchezza, si concludevano invece con la sua rovina o la sua morte. Più semplicemente si pensi agli inganni tesi dall’uomo ai suoi nemici (ad es. il cavallo di Troia) o alle sue prede (le esche sulle trappole per i selvatici): fatti, questi che, sempre sostanziando l’esperienza base in oggetto, non potevano sfuggire all’esigenza di una rappresentazione, di una “personificazione”.

Né questo processo deve suscitare incomprensione poiché costituiva una forma di approfondimento, di “spiegazione” da parte dei primitivi, come noi interessati al quia.
E furono appunto queste personificazioni, queste interpretazioni personalistiche, frequente origine della inconsapevole creazione dei miti. In seguito il processo della mente umana si caratterizza attraverso un sempre più ampio riconoscimento delle forze naturali esterne all’uomo e si riduce così il campo della persona.

Evelyn de Morgan – Le sirene, 1885-1886 – Wikipedia, pubblico dominio

Ma torniamo ai miti, in particolare a quello delle Sirene, esseri, questi, cui viene universalmente riconosciuto il ruolo di “attrarre e procurare sventura” ed il cui nome deriverebbe da una radice sanscrita (svar=cielo) legata al significato di “splendore” (e quindi “attrazione”) oppure, secondo altri etimologi (forse più verosimilmente avendo esse fama di demoni dal canto seduttore) dalla base semitica “sjr, che vuol dire cantare.
Di esse si legge nel Pianigiani (op. cit.): “esseri mitologici il cui busto era di vaga donna e terminava in pesce, i quali avendo stanza sul lido del mare adescavano col soavissimo canto i naviganti per poi farli naufragare”.
Sostanziava questa favola il mortale rischio di coloro che, dirigendo la nave verso tratti di mare resi splendenti dalla poca profondità delle acque, increspate e suonanti, si perdevano con essa. Continua, il Pianigiani, sempre con riferimento alle Sirene e in armonia con quanto detto: “ebbero questo nome perché in origine furono il simbolo della piana e lucida superficie del mare, sotto la quale stavan coperti gli scogli e i banchi di sabbia; donde la favola che fossero vergini fanciulle le quali, stanziate in un’isola, colla dolcezza del loro canto attraevano a sé i naviganti e poi li uccidevano. Omero ne annovera due e le colloca in un paese immaginario; di poi furono comunemente tre lungo la costa meridionale d’Italia.
Più tardi appaiono talvolta come geni della morte e il loro canto è funereo, tal’altra come immagine di un’attrattiva irresistibile e ingannatrice”.

Herbert James Draper – Ulisse e le sirene (1909) – Wikipedia, pubblico dominio

Tuttavia in una più approfondita lettura del mito dobbiamo riconoscere che l’accostamento delle Sirene al mare nulla ci dice delle origini del mito stesso, quando cioè esse venivano rappresentate come donne-uccello : dobbiamo, piuttosto, prendere atto che la prerogativa del canto come richiamo si sposa meglio a questa primitiva figurazione (per antonomasia gli uccelli sono canori e col canto si richiamano e attraggono l’uomo) che è propria della cultura vedica. Nelle leggende brahamaniche troviamo le Apyas, “lusinghiere ed omicide”, con quelle qualità, cioè, che da sempre le distinguono, donde probabilmente le Arpie greche. Queste ultime infatti sono anch’esse donne-uccello e sono legate al concetto di possessività muliebre e all’immagine dell’uccello di rapina (arpazo = rapisco, strappo a forza). Evidenti le analogie con la Sfinge, la Gorgone e la Medusa: sfingi ed arpie son poste sulle steli dei sepolcri, sempre in relazione al causare la morte di chi osi accostarsi ad esse con desiderio, inoltre la Sirena è posta, come avvertimento e come genio custode, sulla omonima porta della città di Paestum.

Fin qui, tuttavia, nulla che spieghi perché il concetto di “lusinga-morte” (trappola, adescamento e morte, inganno, sofferenza) si manifesti come immagine di donna-uccello nel Rigveda, come prodotto di una cultura lontana dal mare e familiarizzata con le grandi pianure e i grandi spazi interni, nonché con la fauna ad essi collegata, e come immagine di donna-pesce quando divenne successivamente patrimonio di quelle civiltà che nel mare trovavano una loro ragione d’essere.
Ma, solo che un po’ ci si rifletta, ecco che la spiegazione appare immediata come quando affiora alla coscienza, finalmente compreso, il significato di un sogno, di un archètipo dell’inconscio collettivo.

La donna-uccello o la donna-pesce sostanziano, con la metà superiore, la donna come massima attrazione e, con la metà inferiore, una natura non umana e, assieme con questa, l’indicazione della impossibilità di ottenere da essa la prosecuzione della vita e quindi delusione, morte. Come, se non immaginando un mostro quale le Sirene, poteva una mente primitiva “sognare” (visualizzare) l’esperienza base “attrazione-morte”? come, se non immaginandolo attraente come una vergine e mortale, sterile, come un essere con cui è inutile unirsi? In altri termini quando l’uomo primitivo ha voluto simboleggiare, “inventare” qualcosa (una figurazione, naturalmente, poi diventata un simbolo) che difendesse, con la sua sola presenza, città, tombe o itinerari segreti, che servisse ad intimorire, spaventare, distogliere l’uomo da certe azioni, egli “pensò”, al di fuori di ogni processo razionale, l’immagine di un qualcosa di attraente (per antonomasia la donna) con la contestuale presenza di elementi idonei ad annunciare la “non vita”, l’estinzione, la morte.

Stralcio testo tratto dalla pagina: spamuova.forumcommunity sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

Così nacque l’immagine della Sirena e, ovviamente, il mito fu parto di una mente maschile…

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