Jacob Jordaens – I quattro evangelisti – Museo del Louvre, Parigi – Wikipedia, pubblico dominio

IL VANGELO DI MARCO 

Secondo la tradizione, Marco scrisse il suo Vangelo dopo la morte di Pietro (64 d.C.). Marco 13 contiene una predizione della distruzione del tempio, ma mentre i suoi paralleli in Matteo e Luca furono scritti dopo l’evento (70 d.C.) e furono in una certa misura alterati per accordarsi con i fatti conosciuti, Marco 13 si presenta come una predizione fatta prima dell’evento. Di conseguenza il suo Vangelo è datato tra il 65-70 d.C.

Emmanuel Tzanes – Icona, San Marco Evangelista – Wikipedia, pubblico dominio

La tradizione collega il Vangelo di Marco con Roma (fatta eccezione di Giovanni Crisostomo che assegna il Vangelo ad Alessandria). Da prove interne risulta evidente che Mc. fu scritto per i cristiani non palestinesi ma di origine pagana: c’è, infatti, una scarsa preoccupazione di mostrare il legame del Vangelo con l’Antico Testamento, per questo motivo si prende cura di spiegare usanze giudaiche (Mc. 7, 3-4; 14,12; 15,42), di dare dettagli geografici (Mc. 1, 5-9; 11,1), di sottolineare l’importanza del messaggio evangelico per i pagani (Mc. 7,27; 8, 1-9; 10,12, 11,17; 13,10) e di tradurre parole aramaiche (Mc. 3,17; 5,41.34; 10,46; 14,36; 15, 22.24). Inoltre i riferimenti alla persecuzione (Mc. 8, 34-38; 10, 38-39; 13, 9-13) sembrano suffragare la tradizione di una provenienza romana.

Il Vangelo di Marco è il meno sistematico. Dopo il preludio, costituito dalla predicazione di Giovanni Battista, dal battesimo di Gesù e dalle tentazioni nel deserto (Mc. 1, 1-13), ci sono alcune rare indicazioni che ci aiutano a discernere un periodo di ministero in Galilea (Mc. 1, 14 -7,23); poi i viaggi di Gesù con gli apostoli nella regione di Tiro e Sidone, nella Decapoli, nella regione di Cesarea di Filippo, con il ritorno in Galilea (Mc. 7,24 -9,50); infine un’ultima salita verso Gerusalemme per la passione e la risurrezione (Mc. 10,1 – 16,8).

Queste grandi linee di Mc. tracciano una evoluzione che merita di essere ritenuta storica e teologica: Gesù all’inizio è ricevuto dalla folla con simpatia, poi il suo messianismo umile e spirituale delude la loro attesa e l’entusiasmo si raffredda, allora Gesù si allontana dalla Galilea per dedicarsi alla formazione del piccolo gruppo dei discepoli fedeli, dai quali ottiene l’adesione incondizionata con la confessione di Cesarea; si tratta di una svolta decisiva, a partire dalla quale tutto si orienta verso Gerusalemme, dove si consuma il dramma della passione, coronato infine dalla risposta vittoriosa di Dio: la risurrezione.

E’, quindi, il paradosso di Gesù, incompreso e respinto dagli uomini ma inviato ed esaltato da Dio, che interessa soprattutto il Vangelo di Marco, il quale si preoccupa meno di sviluppare l’insegnamento del Maestro e riferisce poco le sue parole. Il suo tema essenziale è la manifestazione del Messia crocifisso.

Benché avvolto nell’alone di Pietro, il Vangelo di Marco, considerato dagli studiosi come il primo dei quattro a livello cronologico, non godette nei secoli cristiani di grande popolarità, sovrastato come fu da quello di Matteo, del quale si credeva fosse una specie di riassunto. Solo in epoca più recente questo scritto è stato oggetto di grande interesse, perché fu considerato come l’espressione significativa della prima predicazione della Chiesa, indirizzata a cristiani di origine pagana, a coloro, cioè, che erano già avviati a una “iniziazione” del mistero cristiano (i catecumeni), a coloro che avevano già sentito il primo annuncio e avevano già avuto il primo slancio della fede, ma che ora dovevano giungere a una più profonda comprensione del mistero di Gesù. Una conoscenza non tanto a livello dottrinale e teologico, quanto a livello di fede e di esistenza.

Un testo illuminante è Mc. 4,11 dove si parla di coloro che sono “dentro” (e comprendono) e di coloro che sono “fuori” (e non comprendono); l’iniziazione è un viaggio dall’esterno all’interno, dalla periferia al centro, da una conoscenza per sentito dire a un’esperienza personale. Il mistero cristiano lo si coglie solo dall’interno. La domanda a cui l’evangelista vuol rispondere nel suo Vangelo è: “Chi è Gesù?”. Ma accanto a questa prima domanda e parallela ad essa ve n’è una seconda: “Chi è il discepolo?”. Sono due facce del medesimo mistero: la “via” di Gesù è la stessa “via” del discepolo. Per rispondere a queste due domande (Chi è Gesù? Chi è il discepolo?), c’è innanzitutto da precisare che, nel Vangelo di Marco, la rivelazione progressiva del mistero di Gesù e del discepolo non avviene solo attraverso discorsi progressivi, sempre più espliciti, ma attraverso una storia che, man mano che si vive, si chiarisce: il Vangelo è racconto, dramma, storia, non una dottrina che si apprende, o un catechismo che si impara a memoria. Se si vuol capire, se si vuol leggere dall’interno, bisogna essere coinvolto in quella storia, si deve vivere la sequela, Non c’è posto per l’osservatore neutrale.
Marco non si limita a rivelare poco a poco il mistero cristiano (chi è Gesù?), ma si preoccupa di condurre il lettore a scoprire le proprie paure, le proprie resistenze (chi è il discepolo?). Così il Vangelo si muove contemporaneamente su due linee: la rivelazione del mistero di Cristo e la manifestazione del cuore dell’uomo. E’ il continuo scontro fra questi due aspetti che fa di Mc. un vangelo attuale, drammatico e inquietante. L’uomo vede i gesti di Gesù, sente le sue parole, ma resta incredulo. I motivi di questa resistenza vengono dal suo cuore “malato” (Mc. 7, 17-23), che Gesù è venuto a guarire.

Gesù non ha rivelato subito la sua Persona, ha voluto essere un “Messia nascosto”. Infatti, a più riprese, nel ritratto che Mc. delinea di Gesù, si avverte un senso di penombra: di fronte ai demoni che lo riconoscono Figlio di Dio, di fronte ai miracolati che lo vorrebbero acclamare Messia e Salvatore, Gesù oppone quello che è stato definito “il segreto messianico”. In realtà, egli vuole solo progressivamente svelare il mistero della sua Persona e in particolare “la via della croce” come l’unico cammino per raggiungere il suo pieno svelamento. E’ sulla croce, infatti, che Gesù va riconosciuto come Messia e Salvatore.

La Crocifissione non è sconfitta, ma il trionfo di Cristo, ne è prova il fatto che Mc. fa terminare il suo Vangelo con la professione di fede di un pagano, il centurione, che riconosce in Gesù il Figlio di Dio, proprio al momento della sua morte. “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”. Il Vangelo di Marco si potrebbe chiudere così, difatti egli fa solo un breve cenno alla Risurrezione, parlando del sepolcro vuoto, e il racconto delle apparizioni (Mc. 16,9-20) non è suo: è chiamato, infatti, dagli studiosi “finale canonica di Marco”, cioè fa parte delle Scritture ispirate, quindi ritenuta canonica (del Canone biblico), anche se non necessariamente redatta da Marco.

Per Mc. il momento del trionfo di Cristo è la Croce, e anche se scrive per i Romani, pagani (la Croce per loro era un scandalo), il discorso è diretto a noi, perché spesso anche noi rifiutiamo la nostra croce (“chi è il discepolo?”), invece di imitare quella del Maestro (“chi è Gesù?”). Solo adesso possiamo rispondere alle due domande che Mc. si propone di dare una risposta nel suo Vangelo: Chi è Gesù? E’ il Figlio di Dio che rivela tutto il suo amore per l’uomo, morendo in Croce. Chi è il discepolo? Colui che, come Cristo, accetta la propria croce , sull’esempio del Maestro, come mezzo di salvezza per se e per gli altri. Potremmo, perciò, leggere idealmente questo Vangelo come un itinerario che comprende varie tappe, in cui si mescolano oscurità e luce, distribuite in due grandi momenti.

Il primo (capitoli 1-8), che ha la sua vera vetta nella scena di Cesarea di Filippo ove Pietro riconosce Gesù come “Cristo”, parola greca che traduce quella ebraica di “Messia” (Mc.8, 27-29). Da quel vertice si deve procedere verso un’altra vetta più alta ed è nel secondo movimento del Vangelo (dal cap. 8 alla fine), dove si scopre il vero segreto di Gesù di Nazareth.

Attraverso una “via” spesso evocata (Mc. 8,27; 9, 33-34, 10,17.32.46.52), attraverso tre annunci di Gesù sul suo destino di morte e di gloria (Mc. 8,31, 9,31, 10, 32-34), attraverso la sequela sui passi di Cristo (Mc. 8,34; 10, 21.28.32.52), si giunge sul colle della Crocifissione ed è lì che nelle parole del centurione romano è svelato il mistero ultimo di Gesù: quell’uomo morto in croce è il Figlio di Dio (Mc. 15,39).

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IL VANGELO DI MATTEO 

San Matteo Evangelista – Icona ortodossa russa – Wikipedia, pubblico dominio

Nella storia del cristianesimo, il Vangelo di Matteo, è stato senz’altro il vangelo più popolare, più letto e commentato e, anche se quello di Marco è considerato il primo in origine cronologico, l’opera di Matteo rimane una presenza capitale all’interno della Chiesa, che la propone spesso nella liturgia e nella catechesi.

Nella composizione dei singoli vangeli, ogni evangelista ha una sua prospettiva, segue un suo progetto, disegna un suo ritratto della figura di Cristo, risponde alle esigenze della comunità cui indirizza il suo racconto. Per Matteo si pensa a destinatari di origine ebraica convertiti al cristianesimo, legati alle loro radici, ma spesso in tensione con gli ambienti da cui provenivano.

Si spiega, così, la ricchezza delle citazioni, delle allusioni e dei rimandi all’Antico Testamento nel vangelo di Matteo. In questa linea si può interpretare il rilievo dato ai primi cinque libri biblici – conosciuti come Pentateuco o Torah – che costituiscono la legge per eccellenza. Gli insegnamenti di Gesù sono raccolti in cinque grandi discorsi: il primo ha come sfondo un monte –  ed è perciò chiamato il Discorso della montagna (capitoli 5-7) – e può essere interpretato in riferimento al Sinai: Cristo non è venuto ad abolire la legge di Mosè ma a portarla a pienezza.

Il regno di Dio è il tema centrale della predicazione e dell’azione di Gesù. Nel secondo discorso, detto “missionario” (capitolo 10), il regno è annunziato, accolto e rifiutato. Nel terzo, il discorso in “parabole” (capitolo 13), il regno è descritto nella sua crescita lenta ma inarrestabile nella storia. Nel quarto discorso (capitolo 18) è la Chiesa – un argomento caro a Matteo – che diventa il segno del regno durante il cammino della storia, nell’attesa che esso giunga a pienezza nella salvezza finale (quinto discorso, “escatologico”, capitolo 24).

Questa struttura fondamentale (i 5 discorsi) è preceduta da due blocchi importanti: il vangelo dell’infanzia (cc. 1-2) e la presentazione di Gesù in pubblico: battesimo e tentazioni (cc. 3-4).

Questa è l’opera di Matteo: un grandioso abbozzo della storia di Cristo, della Chiesa e del regno.

La tradizione unanime della Chiesa antica attribuisce questo vangelo a Matteo, chiamato anche Levi, l’apostolo che Gesù chiamò al suo seguito, distogliendolo dalla professione di pubblicano, cioè di esattore delle imposte (9, 9-13). La stessa tradizione, attestata fin dal II secolo, afferma che Matteo scrisse il primo vangelo, forse tra gli anni 40 e 50, in Palestina, per i cristiani convertiti dal giudaismo, in aramaico, la lingua comune in Palestina ai tempi di Gesù, ma di esso non abbiamo traccia. A noi, invece è giunto il testo greco di Matteo, scritto probabilmente nel decennio che va dal 70 all’80 d.C.

Se il Vangelo fu scritto dopo il 70 d.C., ci sono ottime ragioni per pensare che sia stato scritto fuori della Palestina. Numerosi studiosi indicano Antiochia di Siria, una città dove i giudeo-cristiani (cristiani convertiti provenienti dal giudaesimo) e gli etnico-cristiani (i neo-convertiti al cristianesimo) si incontravano e convivevano, e dove le questioni delle relazioni tra la legge e il vangelo erano con ogni probabilità molto scottanti. Il materiale peculiare a Matteo è meglio spiegato se considerato come attinto direttamente a tradizioni palestinesi, il che sarebbe stato possibile nella Siria.

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IL VANGELO DI LUCA 

Il Vangelo di Luca non è che il primo volume della sua opera, gli Atti degli Apostoli costituiscono la seconda tavola del dittico, inseparabile dalla prima. La tradizione cristiana ha cominciato molto presto a distinguere il Vangelo dagli Atti e, purtroppo, ha collocato il vangelo di Giovanni dopo quello di Luca, spezzando così l’unità dell’opera lucana.
L’intenzione di Luca era proprio quella di offrirci un resoconto ordinato (Lc. 1,3), mostrando come la buona novella iniziata in Galilea “dopo il battesimo predicato da Giovanni” (At. 10,37) si sia poi diffusa “fino all’estremità della terra” (At. 1,8).

San Luca Evangelista – Icona ortodossa russa – Wikipedia, pubblico dominio

Vorremmo, pertanto, ripercorrere l’itinerario spirituale che Luca ha percorso mentalmente e strutturalmente con il suo pensiero, la sua riflessione, nello sforzo che ha fatto di coordinare il suo Vangelo in una certa maniera. Noi sappiamo che gli evangelisti non adoperano a capriccio lo stesso materiale, disponendolo in una maniera o in un’altra, ma lo fanno intenzionalmente, perché hanno delle finalità che essi raggiungono proprio nell’adattare, nello strutturare in una determinata maniera il materiale evangelico preesistente. E’ di qui che nasce la “teologia” di Luca, di Marco e di Matteo, ossia la “spiritualità” di ciascuno dei Sinottici.

Alcuni definiscono il Vangelo di Marco: “Vangelo del catecumeno”, perché ha lo scopo di aiutare chi viene introdotto alla fede e si appresta a diventare in un certo senso un discepolo del Signore.

Il Vangelo di Matteo, invece, è il “Vangelo del catechista”, cioè il Vangelo per aiutare colui che deve introdurre altri alla fede e questo risulta, per esempio, dalla struttura dei famosi 5 grandi discorsi del suo vangelo. Quindi, un materiale abbondante a uso dei maestri delle comunità, dei “catechisti”, nel senso più alto e più nobile del termine: sono gli Apostoli stessi i primi catechisti.

Il Vangelo di Luca, invece, è il “Vangelo del discepolo” di Cristo, vale a dire di colui che ha intrapreso a seguire Gesù e lo vuol seguire nonostante tutto. Molti sono gli elementi che avvalorano questa intenzione di Luca, per esempio, quel detto che è riportato soltanto nel suo vangelo: “Chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro non è adatto per il regno di Dio” (9,62). Non basta intraprendere, non basta fare un bel tratto di strada, bisogna andare fino in fondo senza pentimenti. Aver messo mano all’aratro e poi voltarsi indietro significa fallire il proprio ruolo di discepolo di Cristo.

Un altro elemento importante per capire il ruolo del “discepolo” è dato dalla “grande inserzione” lucana, che va dal cap. 9,51 fino al cap. 19,28. Questo blocco letterario caratteristico di Luca, descrive il viaggio di Gesù a Gerusalemme, quasi a dire che chi crede in Cristo deve percorrere questo “faticoso” itinerario che culmina in Gerusalemme, cioè la città del sacrificio e della morte. Nella prospettica lucana il discepolo di Cristo è colui che “segue” il Maestro ovunque egli vada, fino al martirio, se è necessario.  

 La tradizione cristiana ha costantemente indicato Luca, il “caro medico di Paolo (Col. 4,14) come l’autore del terzo vangelo. Egli non fu né un apostolo né un testimone oculare della vita terrena di Gesù, ma conobbe Cristo dai primi testimoni della sua vita e si preparò alla stesura del suo vangelo con un’accurata indagine (1, 2-3). Luca introduce cambiamenti abbastanza significativi nelle sue fonti, particolarmente nel materiale attinto da Marco, da rendere
credibile la tradizione che parla di “Luca medico”: per es. il riferimento di Luca a una grande febbre in 4,38 (modificando Mc. 1,30); la sua affermazione in 5,12 sull’ “uomo pieno di lebbra” (ampliando Mc. 1,40); l’omissione di un commento spregiativo nei confronti dei medici in 8,43. Infine, in At. 28, 7-10, Paolo e il suo compagno di viaggio, Luca, sono altamente onorati per aver guarito molti ammalati nell’isola di Malta. Numerosi altri testi si armonizzano perfettamente con una professione medica: 6,18; 8,42; 13,11.32; At. 3, 7, 9,33.

Luca appare quasi improvvisamente e discretamente al fianco di Paolo durante il suo secondo e terzo viaggio missionario; gli Atti iniziano la loro relazione degli eventi con una prima persona al plurale. Tali “sezioni-noi” ricorrono in At. 16, 10-17; 20, 5-21.18; 27,1-28.16. In base a queste sezioni sembra che Luca abbia accompagnato Paolo da Troade (nell’Asia Minore settentrionale) fino al porto di mare di Filippi in Grecia. Rimase a Filippi per sei o sette anni fino al ritorno di Paolo dal suo terzo viaggio missionario. Entrambi poi viaggiarono per mare fino a Mileto e Cesarea; dopo essere sbarcati a Cesarea andarono a Gerusalemme. Luca rimase al fianco di Paolo durante la sua prigionia a Cesarea; e con Paolo e Aristarco fece l’avventuroso viaggio fino a Roma. Paolo indica Luca come uno dei suoi compagni più fedeli al tempo del suo domicilio coatto a Roma (Col. 4,14; Fil. 23s). Durante questo periodo romano, è possibile che Luca abbia avuto contatti personali con Marco.

Secondo il prologo anti-marcionita, Luca non era sposato, lavorò nell’Acaia (Grecia), e morì all’età di 84 anni. L’imperatore Costanzo II trasportò le sue reliquie a Costantinopoli nel 357 d.C., una leggenda molto tardiva parla di un secondo trasferimento (1177) in Italia e precisamente a Padova. Nel secolo XIV si credeva che Luca fosse stato un abile pittore e l’autore di una famosa icona di Maria, conservata ora in Roma (S. Maria Maggiore). La Chiesa occidentale celebra la sua festa il 18 ottobre.

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IL VANGELO DI GIOVANNI  

La tradizione unanime della Chiesa antica non ha mai messo in discussione l’attribuzione di questo quarto vangelo a Giovanni, figlio di Zebedeo.
Una convalida della tradizione a favore della paternità giovannea del quarto vangelo può essere desunta dallo stesso vangelo. Il vangelo stesso infatti rivendica la dipendenza da un testimone oculare (19,35), un giudeo che conosceva perfettamente la scena palestinese. Luoghi e dati topografici non menzionati nei sinottici vengono specificati con precisione in Gv, come la piscina di Betesda (5,2) e il litostroto (19,13) a proposito dei quali sembra che le ricerche archeologiche abbiano confermato l’esattezza delle descrizioni giovannee.

Giovanni Evangelista e il suo allievo Procoro. Icona russa – Wikipedia, pubblico dominio

Al lettore che si accosta per la prima volta al vangelo di Giovanni, questo scritto rivela almeno due edizioni. Nei capitoli 20 e 21 si hanno, infatti, rispettivamente due conclusioni, e cioè: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo …” (Gv 20, 30-31). La seconda conclusione: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21, 25).

Gli studiosi hanno visto, allora, all’interno del testo le tracce di una complessa vicenda “editoriale” che si è svolta in più tappe.

La prima tappa è legata alla tradizione orale legata all’apostolo Giovanni in ambiente palestinese, subito dopo la morte di Cristo e prima del 70, (la data della distruzione di Gerusalemme), e si esprime nella lingua aramaica.
Si ha, poi, una prima stesura del vangelo in greco, destinata a un nuovo pubblico: quello dell’Asia Minore costiera, che aveva come centro principale la città di Efeso. Alla stesura di questo scritto contribuisce un “evangelista” che raccoglie il messaggio dell’apostolo Giovanni e lo adatta al nuovo pubblico (si pensi al mirabile inno al Logos, cioè al verbo divino che è Cristo, destinato a fungere da prologo dell’intero vangelo). Questa prima stesura, che si concludeva al capitolo 20, si svolgeva lungo due grandi movimenti: il primo (capitoli 1-12), spesso chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli simbolici, scelti dall’evangelista per illustrare la figura di Gesù, e rivelava il Figlio di Dio davanti al mondo, generando adesione e rifiuto. Il secondo movimento testuale (capitoli 13-20), spesso intitolato “Libro dell’ora”, cioè del momento glorioso e supremo della vita di Cristo offerta sulla croce, comprendeva la rivelazione del mistero profondo di Gesù ai discepoli (si pensi ai “discorsi di addio” dell’ultima Cena, come sono chiamati i capitoli 13-17).

Infine, come è attestato dal capitolo 21, si procedette a una seconda stesura alla fine del I secolo d.C. e forse, in un brano allusivo (“Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi”. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” Gv 21, 22-23), si fece riferimento anche alla morte dell’apostolo Giovanni, mentre la Chiesa proseguiva il suo cammino attraverso l’autorità pastorale affidata a Pietro dal Signore risorto: “Simone di Giovanni mi ami tu più di costoro?…” (Gv 21, 15-19).

Da quanto detto finora, possiamo concludere affermando che l’ordine nel quale il vangelo si presenta offre un certo numero di difficoltà: di stile e logiche. Può darsi che queste anomalie provengono dal modo in cui il vangelo è stato composto: sarebbe infatti il risultato di una lenta elaborazione, che comporta elementi di epoche successive, ritocchi, aggiunte, redazioni diverse di uno stesso insegnamento; poi il tutto sarebbe stato definitivamente pubblicato non da Giovanni, ma, dopo la sua morte dai suoi discepoli: (“Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera” 21,24). Così, nella trama primitiva del vangelo, essi avrebbero inserito frammenti giovannei che non volevano lasciar perdere, senza preoccuparsi troppo di dare loro un ordine logico e cronologico.

Una cosa, però, rimane certa: il vangelo di Giovanni così com’è, porta l’impronta di uno scrittore, il cui racconto è costruito intorno alla figura di Gesù, presentata nella sua umanità e divinità con grande originalità teologica.

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