
Ubicazione della Val di Fassa – Wikipedia, Immagine rilasciata con licenza CC BY-SA 3.0
Nella Val di Fassa, un tempo, la gente viveva immersa nel mistero.
I boschi non erano solo boschi: erano dimora di spiriti, voci e presenze che si muovevano silenziose tra gli alberi. Si diceva che quattro popoli di esseri mitologici abitassero quelle montagne, e che ogni fruscio del vento potesse svelare una loro storia.
Le Vivenes, per prime, erano creature di bellezza rara, spiriti delle acque e delle vette. Vivevano nei boschi, custodi dei pascoli e degli alberi, ma non temevano l’uomo. Anzi, spesso si mostravano per offrirgli consigli: sapevano quando seminare, quando mietere, e come trarre il meglio dai doni della natura. Alle donne insegnavano i segreti del bucato perfetto e dell’acconciatura, e tutti le ascoltavano perché, si diceva, sapevano leggere il futuro.
Avevano un dono speciale: comprendevano il linguaggio delle civette, e da esse apprendevano notizie da ogni angolo del mondo.
Il loro corrispettivo era il Salvan, l’Uomo Selvatico. Spirito delle foreste e dei raccolti, insegnava agli uomini a fare il formaggio e a lavorare il latte. Ma non era sempre buono: a volte aiutava, altre volte si vendicava. Era il bosco stesso, nella sua duplice natura di nutrimento e pericolo.
Ben più oscure erano le Bregostenes, selvagge e maligne, che vivevano tra le rocce e gli abeti. Si divertivano a portare scompiglio: rubavano oggetti, spaventavano le greggi, disperdevano i covoni di fieno.
La leggenda più temuta raccontava che rapissero i neonati dalle culle per sostituirli con i propri figli deformi. Per questo ogni casa teneva un cane, perché le Bregostenes ne avevano un terrore mortale.
Ma la paura più grande aveva un nome umano: le Stries, le streghe.
Erano donne del paese, apparentemente comuni, ma legate al demonio. A loro si attribuivano tempeste improvvise, raccolti distrutti, pane che non lievitava e burro che non riusciva.
Contro di loro, la gente si proteggeva come poteva: salendo sugli abeti rossi, portando al collo mazzetti di erbe benedette o lanciando coltelli incisi con nove croci verso il temporale. Ma la difesa più sicura era una sola: bandirle dal villaggio.

Campitello di Fassa, sullo sfondo il Latemar e il gruppo del Catinaccio – Wikipedia, pubblico dominio.
All’inizio del Novecento, in un piccolo villaggio della Val di Fassa, viveva una donna di cui tutti parlavano sottovoce.
La chiamavano strega. Era cattiva, dicono, e godeva nel seminare discordia. Bastava una sua parola per trasformare amici di sempre in nemici giurati. Poi, restava a guardare, sorridendo, mentre i due litigavano senza neppure sapere perché.

Un Crocifisso in campagna – Image by Stefan Schweihofer from Pixabay
Un giorno, gli abitanti del paese decisero che ne avevano abbastanza.
Con una scusa qualunque la mandarono fuori dal villaggio, e mentre era via appesero un grande crocifisso di legno sulla parete dell’ultima casa, proprio lungo la strada che portava al bosco. La tradizione diceva che, se un Crocifisso chiudeva la via, nessun male avrebbe potuto più oltrepassarla.
Quando la donna tornò, percorse il sentiero di sempre, ignara di tutto.
Ma appena cercò di varcare la soglia tra il bosco e il paese, una forza invisibile la respinse con violenza.
Provò e riprovò, ma nulla: quel Crocifisso la teneva lontana.
Allora, colma d’ira, alzò le mani al cielo e gridò:
«Tornerò! Tornerò con tutte le mie sorelle, e il vostro villaggio cadrà in cenere il giorno in cui quel Crocifisso verrà tolto!»
Poi si voltò e scomparve tra gli alberi.
Da allora sono passati molti anni. Il Crocifisso è ancora lì, scolpito nel legno annerito dal tempo, a guardia dell’ingresso del villaggio.
E la gente del posto lo rispetta, lo saluta passando, e mai ha osato rimuoverlo.




