Giorgio Vasari, Sei poeti toscani,[Dante Alighieri, Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia, Guittone d’Arezzo, Guido Cavalcanti] pittura a olio, 1544 – Wikipedia, pubblico dominio

La letteratura italiana nasce e si sviluppa nel corso del XIII sec. Essa nasce dotta e in un periodo in cui nuovi strati di intellettuali emergono dalla rivoluzione socioeconomica legata all’affermarsi dei Comuni (specie nell’Italia centrosettentrionale), che si verifica nel corso dell’XI sec. e soprattutto del XII sec. I Comuni cioè tendono a trasformarsi in città-stato, in grado d’imporsi ai feudatari della campagna circostante e capaci di difendere la loro autonomia dalle interferenze dell’imperatore (il quale infatti con la pace di Costanza del 1183 sarà costretto a riconoscerla). I Comuni possono eleggere i propri dirigenti politici, amministrare la giustizia, battere la moneta, armarsi. Gli strati sociali più importanti sono quelli mercantili (commercianti, artigiani…), oltre a quelli professionali (giuristi, medici, maestri…), tutti legati a Corporazioni o Arti per tutelare i loro interessi.

Questi nuovi strati cittadini ebbero subito bisogno di intellettuali non più collegati alla Chiesa né di provenienza nobiliare. Gli intellettuali però si muovono ancora in un clima culturale dominato dalla teologia medievale, anche se alcune correnti teologiche si vanno progressivamente laicizzando (ad es. lo Stato non è più visto come “braccio secolare” della Chiesa ma come una naturale forma associativa degli uomini). Ciò significa che i primi intellettuali dei ceti mercantili e borghesi non potevano essere originali sul piano dei contenuti, però lo erano sicuramente sul piano della forma espressiva. Infatti, la più importante caratteristica del nuovo ceto intellettuale è l’uso del volgare (cioè della lingua del popolo, in contrapposizione alla lingua dei dotti, della cultura: il latino).

Naturalmente l’affermazione iniziale del volgare avviene con molte difficoltà. I problemi maggiori però non erano tanto quelli posti dai cultori laici ed ecclesiastici del latino, quanto quelli posti dall’esigenza di farsi capire sia dalle persone colte che dal popolo. Da un lato infatti s’imponeva l’uso della lingua di tutti i giorni, dall’altro – essendo questa lingua divisa in tanti dialetti e scarsamente definita – c’era il rischio di creare una letteratura sempre subalterna al latino, il quale, nonostante non fosse più parlato dalle masse, restava la lingua scritta universale. Di qui l’esigenza di trovare un compromesso. E fu così che nacque una sorta di volgare “nobilitato” e illustre, adatto sia ai colti che al popolo, un volgare elevato alla dignità espressiva del latino.

Il sec. XIII segna in Italia, con ben due secoli di ritardo rispetto alla Francia, l’inizio dell’affermazione del volgare scritto. Il ritardo era dovuto al fatto che in Italia persisteva una tradizione letteraria classico-latina, sostenuta dal ceto ecclesiastico e anche dagli intellettuali laici che frequentavano le corti signorili, tenendosi ben lontani dalle esigenze popolari.

Sulla nostra letteratura in volgare cominciano ad esercitare una certa influenza due letterature neolatine sorte in Francia già nell’XI sec.: quella d’OC o provenzale od occitanica (Francia meridionale), attraverso i poeti provenzali stanziati in Italia, e, in misura minore, quella d’OIL od oitanica (Francia settentrionale). La lingua d’OC era ritenuta particolarmente adatta alle rime; quella d’OIL alla prosa.

In particolare, la poesia provenzale influenzò tutta la nostra lirica amorosa, per la tematica e per il rigore stilistico-espressivo. Dalle corti feudali francesi si diffusero valori come lealtà, liberalità, discrezione, eroismo, l’amore inteso come passione irresistibile e dedizione assoluta. Il poeta, come un vassallo, rende omaggio all’amata (una castellana), aspetta da lei un beneficio per la sua dedizione (che può anche essere un sorriso), soffre per la lontananza.

La letteratura in lingua d’OIL, costituita dalle canzoni di gesta eroiche, epiche e dai romanzi dei cicli carolingio e bretone (ad es. la Chanson de Roland, che narra le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni dilagati in Spagna; oppure Le gesta di re Artù e dei cavalieri della tavola rotondaLancillottoLeggende di Tristano e Isotta ecc.), si mescola con la lingua veneta, producendo una letteratura non molto diffusa.

La prima espressione poetica italiana, attuata da una omogenea cerchia di intellettuali e rimatori, che seppero fondere influssi arabi, elementi indigeni, tradizioni franco-normanne coi motivi della poesia lirico-provenzale, si svolge alla corte palermitana di Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. L’Italia meridionale, con questo felice esordio, entra a pieno titolo, seppure per breve tempo, nell’ecumene della lirica cortese, accanto a Catalogna, Francia del Nord, Germania renano-danubiana, Portogallo, Galizia e ovviamente Provenza.

Ciò che ha sempre stupito i critici è stata l’improvvisa apparizione di tale scuola proprio nella Magna Curia palermitana, visto e considerato che Federico II, una volta divenuto imperatore, non mostrò alcun particolare interesse nei confronti dei poeti-musici tedeschi, autori e cantanti del Minnesang (canzoni d’amor cortese). È probabile che l’impulso dato da Federico alla “traduzione” e all’adattamento in un volgare italiano del modello trobadorico, fosse dettato sia da ragioni politiche: suo obiettivo era quello di realizzare uno Stato italiano forte e accentrato e la diffusione del volgare (il cui nemico principale era il latino ecclesiastico) serviva certamente allo scopo; che da ragioni culturali: gli ambienti della corte sveva dovevano essere già permeati di cultura cortese; intellettuali e funzionari non siciliani come Pier della Vigna, Rinaldo d’Aquino, Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) e altri ancora non potevano ignorare la presenza di diversi trovatori nelle corti dell’Italia settentrionale, o non essere a conoscenza di precedenti traduzioni della lirica d’OC in altre lingue (almeno in francese e in tedesco).

I poeti siciliani (Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Cielo d’Alcamo, Giacomino Pugliese…), quasi tutti funzionari di stato (a differenza dei trovatori del Mezzogiorno francese, provenienti dalle classi più disparate), pur richiamandosi alla tradizione lirica provenzale, di questa rifiutano i temi dell’esaltazione delle imprese militari, gli insegnamenti morali, la polemica politica, la satira dei costumi, e accettano solo l’amore cortese, intendendo la poesia solo come evasione intellettuale. La tendenza amorosa comprende la passionalità che rende “schiavi d’amore”, il dolore per il distacco dall’amata, l’esitazione a manifestare il proprio amore, le lodi della donna, il biasimo per i maldicenti-indiscreti-invidiosi. La donna spesso è immaginata bionda e raffinata.

Jacopo da Lentini – Wikipedia, pubblico dominio

La prima canzone scritta in siciliano è Madonna, dir vo voglio, del Lentini, che è un fedele rifacimento di una canzone di Folchetto di Marsiglia.

 Ben più importante di questi contenuti è lo stile delle poesie. Alcuni poeti siciliani usarono come strumento linguistico di partenza il volgare dell’isola e non una varietà letteraria sovraregionale, come nella lingua dei trovatori. Il volgare siciliano viene perfezionato nel lessico e nella sintassi, modellandolo sull’esempio del latino usato dagli intellettuali e arricchendolo di molte parole provenzali tradotte.

Con la morte di Federico II (1250), cui seguì il rapido declino del dominio imperiale nel Mezzogiorno, conteso da Angioini e Aragonesi, la scuola ebbe termine. Quasi nessun manoscritto meridionale ci è giunto dei Siciliani, e i modesti poeti insulari del XIV sec. sembrano ignorare completamente i loro illustri predecessori.

L’eredità dei poeti federiciani fu raccolta nell’Italia centrale dai cosiddetti poeti siculo-toscani, solo grazie ai canzonieri toscani oggi possiamo leggere, seppure in forma non originale, la poesia dei Siciliani, e in un ambiente culturale più avanzato: Firenze, dopo la battaglia di Campaldino (1289) era diventata una capitale economica europea, in fase di espansione per tutta la Toscana. Il maggior poeta fu Guittone d’Arezzo (1235-94).

La tradizione siciliana viene dunque proseguita in Toscana perché molti intellettuali di questa regione erano vissuti per vario tempo alla corte di Federico II. Qui i componimenti ispirati al tema dell’amore non si discostano dai motivi cari ai siciliani e ai provenzali, però la preoccupazione -essendo le condizioni politico-sociali delle città toscane molto sviluppate- è quella di fare una lirica dotta, erudita, in uno stile complesso-difficile-ricercato. Inoltre non mancano i temi politici, soprattutto quelli dedicati a Firenze.

Domenico di Michelino – Dante Alighieri, dettaglio dal monumento equestre a Niccolò da Tolentino. – Wikipedia, pubblico dominio

A Firenze si sviluppa la scuola più significativa di questo periodo. Rappresentanti principali sono Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti (quest’ultimo influenzerà notevolmente Dante). Qui il tema dell’amore viene purificato da ogni sensualità e diventa strumento di perfezione morale (che porta anche a Dio), per cui esso è patrimonio di pochi virtuosi. La donna è angelicata, oggetto di contemplazione. Lo stile diventa molto raffinato-limpido-musicale. C’è molta più attenzione per l’interiorità psicologica, per i sentimenti profondi. Lo stesso concetto di “nobiltà” ora si riferisce solo allo stato d’animo, agli intenti o all’ingegno.

Si sviluppa sempre in Toscana e si contrappone allo stilnovismo. È l’espressione della piccola-borghesia comunale e degli strati popolari più attivi. Essa esalta ciò che la vita offre come piacere: vita gioiosa, spensierata, amore sensuale, piaceri materiali e immediati. La donna a volte è criticata perché considerata incapace di sentimenti disinteressati. Altri motivi sono la polemica e la satira politica contro i nemici personali, la caricatura scherzosa degli amici, l’anticlericalismo. Lo stile è mediocre perché molto vicino al parlato, adatto per una comunicazione immediata. Esponente più significativo: Cecco Angiolieri.

È quella di Francesco d’Assisi, che rifiuta i valori medievali fondati sulle rigide gerarchie e sulla guerra, i valori materialistici della nascente civiltà borghese-mercantile, i valori della religiosità ufficiale, che a livello teologico risultano incomprensibili alle masse e che a livello pratico risultano poco credibili. Poema principale: Cantico di Frate Sole (detto anche delle creature) del 1224. Si tratta di una lode degli elementi naturali (aria, acqua, fuoco, terra, sole) che rispecchiano -secondo l’autore- la bontà di Dio e che guidano l’uomo all’amore, al perdono dei nemici, alla serena accettazione della morte. È scritto in volgare umbro, semplice e comprensibile al popolo, benché sia ripulito dai termini dialettali e modellato sul latino.

Poi vi sono le laudi di Jacopone da Todi (francescano). Le migliori sono quelle a sfondo politico, ove egli attacca gli abusi del papato e i teologi che credono di poter trovare una giustificazione razionale della fede.

Anche i Fioretti di s. Francesco vennero scritti in un volgare di carattere popolare. Viceversa, laLeggenda di S. Francesco, di Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274), che pure tratta della vita di un santo caro alle masse popolari, per ragioni di decoro venne redatta secondo i soliti canoni linguistici…

 

Stralcio testo tratto da un articolo di pubblicato nella pagina umsoi.org sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

 

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