Gravellona Lomellina (Gràvaluna in dialetto lomellino) è un comune italiano di 2.618 abitanti della provincia di Pavia in Lombardia. Si trova nella Lomellina nordorientale, nella pianura alla destra del Terdoppio. In questa località ci porta antikitera.net per regalarci un po’ di storia.

 

 

Veduta della piazza di Gravellona Lomellina (PV) con la Chiesa Parrocchiale della Beata Vergine Assunta – Wikipedia, foto di Alessandro Vecchi rilasciata con licenza CC BY-SA 3.0

La vita era organizzata sul nostro territorio molto prima dell’arrivo dei Romani. L’Italia settentrionale era terra celtica e fu conquistata dai Romani con una lunga guerra coloniale. Il lato meridionale della valle del Po era abitato da popolazioni liguri. Sul terrazzo settentrionale, lungo il Ticino, i Liguri si incrociarono con i Celti, a partire dal 400 a.C. I Celti (o Galli) non erano affatto barbari nel senso di “sottosviluppati”, anzi erano degli artefici e degli uomini molto raffinati. La loro civiltà fu la prima, per quello che oggi si sa, ad essersi estesa su tutto il continente europeo, sino all’Asia Minore. È considerata “preistorica” perché non ha tramandato una storia scritta.

I Celti usavano già il sapone, usavano una tecnologia agricola piuttosto sviluppata e inventarono i cuscinetti a rulli per ridurre l’attrito nel trasporto dei carichi pesanti. Erano bellicosi, esperti nell’uso di frecce avvelenate. Erano uomini dai gusti raffinati, uomini che non conoscevano la paura.
Una sola cosa temevano, ed è rimasta leggendaria: che il cielo potesse un giorno cadere sulla loro testa.
La via fluviale era importante, in un’epoca in cui non esistevano strade agevoli e non era possibile trasportare ingenti carichi per via di terra.

Ventidue secoli fa la vallata del Ticino era popolata a nord dai Celti Insubri, a sud (nella zona di Pavia) dalle tribù liguri dei Levi e dei Marici.
L’insediamento delle tribù privilegiava i luoghi elevati, con ampia vista all’intorno. Nella valle del Ticino le case e i luoghi di culto si addensavano sul margine dei terrazzi fluviali, sulla costa, soprattutto nei punti sporgenti o prossimi ai guadi più agevoli. Milano, Vigevano, Marcignago, Calignago, Papiago, conservano nel nome un inconfondibile sapore celtico (la desinenza in -ac, -ago, significa “casa, luogo di abitazione”).

Oltre ai nomi di località che terminano in “-ago” possiamo ricordare quelli in “-asco”: per elencarne solo alcuni, Binasco, Bornasco, Bosnasco, Garlasco, Gualdrasco, Zinasco.

I Romani intrapresero l’occupazione del Nord Italia dopo lo sterminio dei Galli Senoni (dai quali deriva il nome dell’odierna Senigallia), negli anni 285-283 a. C. Attaccarono i villaggi indifesi alle spalle dei guerrieri che avanzavano verso il Sud per sfuggire il flagello della malaria. La valle padana era importante per le correnti di traffico e di scambio commerciale con i porti fenici e greci dei mari Tirreno e Adriatico. Verso la confluenza del Ticino nel Po convergevano traffici provenienti dall’Adriatico (dalla città etrusca di Spina) e dai porti del golfo ligure, diretti ai valichi alpini. 
Vittimelle. Victimulae, victumulae. Così i Romani chiamavano gli abitanti di questi luoghi, Insubri, Salassi e altre tribù loro imparentate. Ce lo racconta Tito Livio. Da queste parti, i guai cominciarono un giorno, poco dopo il Capodanno celtico, all’incirca alla fine di novembre. Sono trascorsi quasi 2230 anni. Il giovane Publio Scipione attraversò il Ticino con un esercito, con migliaia di cavalieri armati di tutto punto, e attraversò in armi queste terre, per attaccare i Taurini e i Salassi, che si erano alleati con Annibale e i suoi soldati iberici.

Naturalmente, le “vittimelle” dovettero subire tutte le peggiori conseguenze della guerra. Quell’inverno, molti villaggi patirono la fame, perché le scorse erano state requisite dai combattenti.

Una ventina d’anni dopo, i Romani ritornarono, da vincitori incontrastati. Punirono tutti coloro che si erano schierati contro, ridussero diverse tribù in schiavitù e altre ne deportarono, nelle valli del Biellese, a cavare per loro conto l’oro che scendeva, nei letti dei torrenti, dal massiccio del Monte Rosa. La nostra terra non fu più la stessa. I terreni migliori furono dati ai veterani degli eserciti romani, o a coloro che li avevano aiutati. L’agricoltura fiorì, è vero, con le arti e le lettere, ma si andò perdendo quell’intimo rapporto con la natura e con i suoi elementi, che costituisce la radice dello spirito celtico.

Tanta gente è passata di qui nel corso dei secoli, sarebbe lungo elencarli tutti. Ci piace pensare che una goccia del loro sangue, di tutti quelli che sono passati, sia rimasta nelle nostre vene. Che un’impronta di questo cielo, e di tutti i cieli visti dai nostri antenati, sia rimasta impressa nella nostra memoria. Solo mettendo in comune questo nostro patrimonio, con quello della terra su cui oggi appoggiamo i piedi, potremo “sentirci bene” e lasciare una traccia valida del nostro passaggio.

Perciò oggi vogliamo riallacciare la nostra amicizia con la madre terra, col sole, con gli elementi naturali. Il nostro Parco è il posto migliore nel quale possiamo esprimere questa nostra sintonia con le piante, con gli animali, con l’acqua, con il cielo e con le stelle. Le pietre che abbiamo piantato, lassù, sulla collina centrale (I Prion), indicano le principali direzioni di levata e tramonto del sole, proprio qui, nel nostro territorio. Sono una specie di “carta d’identità” del nostro paese, tra terra e cielo. Per riscoprire le nostre origini profonde di uomini, nati da questa terra, con gli occhi rivolti a questo cielo.

Il cromlech di Gravellona – Immagine tratta da antikitera.net

A Gravellona Lomellina, un cromlech o calendario solare spicca sulla collina, in mezzo ai laghi d’un grande parco pubblico, e guarda verso un dolmen, dall’altra parte del lago, orientato al sole calante del solstizio d’estate…

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Stralcio testo tratto dalla pagina: antikitera.net sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

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