di Claudia Pecoraro (*)

Insetto affascinante e misterioso, ma eternamente connotato in modo positivo. L’ape è stata al centro di credenze popolari, di racconti mitici e di devozione religiosa. Cerchiamo di seguirne il percorso attraverso la storia.

Le api compaiono sullo stemma nobiliare dei Barberini – Wikipedia, pubblico dominio

L’ape è da sempre simbolo di sovranità. Casate nobiliari di tutto il mondo e di tutte le epoche hanno raffigurato questo laborioso insetto sui propri stemmi. Insetto ricco di simbologie in tutte le società antiche, è stato considerato animale nobile, impenetrabile e magico in molte religioni, dall’Oriente all’Occidente.

Nell’antico Egitto l’ape ebbe un significato solare; secondo un mito, quando Ra piangeva, le sue lacrime si trasformavano in api. A Sais il tempio del dio Neith era soprannominato “casa dell’ape”.

Nella religione ellenica Zeus viene talvolta chiamato Melisseo (uomo-ape), perché da piccolo era stato nutrito dalle api di Creta, a cui aveva poi donato il colore aureo. L’ape era sacra anche ad Artemide nel suo ruolo di ninfa orgiastica e il piccolo insetto, in quanto simbolo di produttività, era identificato poi con la dea greca Demetra e con le romane Cerere e Opi.

Anche dall’altro capo del mondo, secondo la religione indianaVisnù, Krishna e Indra sono chiamati Madhava (nati dal nettare) e sono spesso raffigurati con un’ape posata su un fiore loto, mentre Karma ha una corda dell’arco fatta di api.

Persino una religione monoteista come il cristianesimo adottò l’ape come simbolo: si narrava che San Giovanni Crisostomo (“dalla bocca d’oro”) fosse nato con uno sciame di api che gli volteggiava intorno alla bocca a simboleggiare la dolcezza della sua predicazione.

L’ape contiene insomma, per gli antichi, il germe del divino. Virgilio nelle Georgiche dice che le api “hanno una parte della mente divina e il respiro dell’etere”. Lo stesso poeta, nell’Eneide, ritorna sul tema e vi aggiunge l’immortalità dell’anima: paragona le api alle anime che volano presso il Lete, e il loro rapporto starebbe nella moltitudine e nel ronzio, oltre al fatto che entrambe volano.

Porfido, filosofo neoplatonista dell’antica Grecia – Wikipedia, pubblico dominio

Porfirio, filosofo del III secolo, racconta che gli antichi chiamavano melìssas le anime avviate alla nascita, ma solo quelle destinate a vivere con giustizia, e a ritornare là da dove provengono dopo aver fatto il volere degli dei.

Nell’Ippolito di Euripide, l’eroe offre ad Artemide una corona di fiori che proviene da un prato incontaminato, dove il pastore non osa pascolare il suo gregge e in cui solo l’ape può accedervi, in quanto luogo di grande purezza.

Le api erano quindi considerate innanzitutto caste. Virgilio stesso ci dice che esse non si abbandonano al congiungimento, non fiaccano i loro corpi nei piaceri di Venere, né generano con le doglie. Del resto, le donne ateniesi che partecipavano alle feste Tesmoforie assumevano il nome di mélissai: esse si astenevano per tre giorni da ogni contatto sessuale, digiunavano per un giorno e giacevano a terra su giacigli di agnocasto, pianta dal potere anafrodisiaco.

Messaggera tra i due amanti, l’ape rappresenta simbolicamente il legame di purezza e di fedeltà che deve stringerli l’uno all’altro: una volta infranto tale legame, è l’ape stessa che può svolgere il ruolo di punire il reo.

L’ape è stata considerata un animale contrario al lusso e alla mollezza fino a tempi recenti, per questo nel folclore tedesco il mettersi di fronte a un alveare costituiva una tipica prova di purezza per le giovani spose.

Dal codice amoroso si fa presto a passare al codice alimentare, e anche qui il comportamento deve essere irreprensibile: l’ape odia ogni forma di putrido, mai essa si poserà su un pezzo di carne, o là dove sia del sangue o del grasso. Inoltre l’ape tiene costantemente pulito l’alveare, trasportandone fuori gli escrementi, e sia Virgilio che Plinio affermano che l’apicoltore deve allontanare da esso ogni fonte di cattivi odori e costruirlo lontano da latrine, letamai e bagni e, persino nell’avvicinarsi all’alveare, deve curare di essersi astenuto da ogni cibo forte o troppo saporoso.

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Per molto tempo l’ape ha avuto una importante funzione economica, oltre che simbolica e magica; il miele è il primo dolcificante conosciuto dall’uomo.

La prima attestazione dei rapporti tra l’ape e l’uomo riguarda proprio questo prezioso nettare e risale addirittura al neolitico (9.000 anni fa circa): si tratta di una grotta in Spagna, Cueva de la Araña, sulle cui pareti è raffigurato un nido di api e un cacciatore di miele.

Anticamente si pensava che il miele, cibo divino donato dagli dei all’uomo, derivasse da un pulviscolo con proprietà magiche che vagava nell’aria, e che venisse raccolto direttamente dai fiori su cui cadeva. Virgilio lo chiamava “dono della rugiada”. Per questo era usato nei riti di propiziazione e magia, soprattutto in quelli legati alla prosperità, alla fertilità e all’amore, e nei riti di purificazione, spesso usato con il latte. Era offerto agli dèi a titolo di ringraziamento, per consacrare preti e sacerdotesse, per benedire i templi e scacciare spiriti maligni.

Il miele era presente nei più importanti riti di passaggio della vita: nascita, matrimonio e morte. Quando nasceva un nuovo bambino gli veniva offerto miele per dargli il benvenuto, garantirgli buona salute e allontanare i demoni. Nelle cerimonie nuziali il miele era offerto in dono come cibo e lo si spalmava sulla soglia di casa della nuova coppia. Da questa usanza ancora oggi persiste il modo di dire “luna di miele”.

Insetto dei fiori, della rugiada e del nettare. Lontana dal putrido ma anche dai profumi troppo forti. Essere né maschile né femminile, né domestica né selvatica, come a dire né dalla parte della cultura né da parte della natura. Insetto lontano, divino, enigmatico e, di certo, eccezionale.

di Claudia Pecoraro

Stralcio testo tratto da: terranauta.it

 

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(*) Claudia Pecoraro (Palermo 1978) si è laureata nel 2002 in Lettere Classiche – indirizzo archeologico, con una tesi in Archeologia della Magna Grecia. Nel 2006 si è diplomata presso la Scuola di Specializzazione di Archeologia de La Sapienza di Roma. Dopo aver svolto le sue ricerche in Normandia presso il Musée de la Tapisserie de Bayeux e il Ministère de la Culture et de la Communication a Caen, si è specializzata con una tesi in Museologia, i cui risultati sono appena stati pubblicati (Il Museo dell’Arazzo di Bayeux, ovvero museo come ipertesto, in Nuova Museologia n. 17, 2008).

Dal 2004 lavora presso il sito archeologico di Ostia Antica dove, attraverso percorsi particolari e laboratori, approfondisce e sperimenta innovative metodologie di comunicazione al pubblico, diverse dalle tradizionali visite guidate.
Ha collaborato per due anni con il Museo Archeologico Regionale di Palermo “A. Salinas”, per il quale ha allestito una sezione permanente relativa a materiali provenienti da Selinunte, da lei stessa studiati e pubblicati (Le arule della Malophoros e le Piccole Metope di Selinunte, in Quaderni del Museo “A. Salinas” n. 7, 2003).
Negli ultimi anni ha indirizzato le sue ricerche nel campo della Museologia, approfondendo in particolare le teorie della comunicazione, i processi conoscitivi e la didattica museale, con un interesse sempre maggiore per lo studio del pubblico dei musei.
È stata selezionata dalla Comunità Europea per partecipare a Copenhagen (gennaio 2008) al progetto ARCHAIA-Training Seminars on Research Planning, Characterisation, Conservation and Management in Archaeological Sites.
Da ottobre 2006 collabora con Terranauta, scrivendo articoli su Arte, Musica e Teatro.