La poesiola qui proposta è dell’abate palermitano
Giovanni Meli (1740 – 1815) da tutti segnato a dito come “onnisciente” per la sua vasta erudizione, negli orientamenti di gusto classicista ed arcadico, nelle idee sostenitore di un razionalismo e di un riformismo piuttosto blandi.

Questa favoletta non è il meglio della sua vasta produzione poetica in dialetto, ma è la poesia che, per il suo assennato moralismo e per la facilità del ritmo e della rima, tutti i libri di lettura delle elementari della Sicilia contenevano nelle loro pagine e che maestre e maestri facevano imparare a memoria. Credo che per questo possa essere apprezzata dai siciliani della mia generazione.

C’è un particolare curioso che mi piace sottolineare. Il topo saggio, che cerca di riportare il topolino traviato sulla retta via, non è il babbo, ma lo zio. Chissà se ha qualche rapporto con la condizione di abate del suo autore. Abate, nella maggior parte dei casi, non era a quel tempo il priore di un’abbazia, ma il destinatario delle sue rendite, spesso un letterato che viveva “secolarmente” e “nel secolo”, protetto da un qualche grande dignitario religioso o laico in grado di assegnargli, appunto, il titolo di abate. C’era, gravoso, il vincolo della castità, in sostanza il divieto di matrimonio, non solo per i sacerdoti, ma anche per gli abati che prendevano gli ordini minori, condizione necessaria per ottenere la nomina e le rendite. Si aggirava il divieto con la convivenza more uxorio, ampiamente tollerata; ma dai figli naturali l’abate si faceva chiamare “zio” e, a sua volta, li adottava come nipoti, favorendone come poteva le carriere civili ed ecclesiastiche. (S.L.L.).

Stralcio testo commento tratto dalla pagina: salvatoreloleggio.blogspot sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

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