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La nascita delle civiltà

La transizione dal paleolitico al neolitico doveva necessariamente portare alla nascita delle civiltà schiaviste?  E’ possibile sostenere che il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, dalla caccia e raccolta dei frutti spontanei della terra alla modificazione dell’ambiente, attraverso l’agricoltura e l’allevamento di animali domestici, doveva necessariamente portare, prima o poi, alla trasformazione in società antagonistica, divisa in classi contrapposte.

L’unica cosa che si può pensare è che il passaggio dal nomadismo alla stanzialità deve per forza aver comportato una delimitazione del territorio. Si trattava tuttavia di una delimitazione collettiva, da parte di una tribù nei confronti di un’altra tribù.

Non è certo ancora il caso di parlare di “proprietà privata” all’interno di una medesima tribù. Gli indiani nordamericani non hanno mai conosciuto alcuna proprietà privata e si scandalizzavano nel vedere i bianchi lottare per averla.

Il problema semmai è un altro. Che succede se una popolazione è ancora dedita al nomadismo, mentre un’altra ha scelto la stanzialità? Che succede se una popolazione dedita al nomadismo pratica l’allevamento di animali domestici, per i quali ha bisogno di pascoli adeguati?

Quando una tribù sceglie la stanzialità e pratica l’agricoltura, non può tollerare che i propri campi coltivati vengano compromessi dal passaggio di mandrie appartenenti ad altre tribù.

Una popolazione stanziale può tollerare l’allevamento al proprio interno, ma nei limiti dei campi disponibili, altrimenti scoppia un conflitto di interessi (com’è documentato anche nei miti, di Caino e Abele, di Romolo e Remo ecc.).

Dunque il passaggio dal nomadismo alla stanzialità può aver dato fastidio a chi si limitava a vivere di caccia e pesca e di raccolta dei frutti spontanei della terra e soprattutto deve aver dato fastidio a chi basava la propria sopravvivenza sull’allevamento degli animali.

Non è tuttavia da escludere che l’allevamento intensivo di animali domestici, tale da determinare una specializzazione di funzione lavorativa, sia stato proprio una conseguenza del passaggio dal nomadismo alla stanzialità. In tal caso lo si dovrebbe vedere come il primo tentativo di separarsi da un collettivo per ricercare un’affermazione individuale (una separazione che ovviamente è avvenuta in maniera graduale e che si è stabilizzata all’aumentare del tempo di permanenza delle mandrie al di fuori del villaggio originario).

Se vogliamo il vero nomadismo è soltanto quello di popolazioni che vivono di caccia, come appunto le tribù nordamericane, che seguivano gli spostamenti delle mandrie selvagge dei bisonti su territori sconfinati. Quelle popolazioni poterono restare prevalentemente nomadi, sino all’arrivo dell’uomo bianco, proprio perché non avevano particolari problemi di alimentazione. La stanzialità è sempre legata all’agricoltura, solo che l’agricoltura, ad un certo punto, si lega allo schiavismo.

E’ da escludere che la nascita delle civiltà antagonistiche sia potuta avvenire in virtù del nomadismo degli allevatori. Semmai si può dire che questa forma produttiva di nomadismo ha indotto le tribù stanziali a operare delle modifiche al proprio interno, che poi possono aver portato alla nascita delle civiltà antagonistiche. Cioè la fastidiosa presenza di allevatori nomadi può aver indotto le tribù stanziali ad accentuare il problema della delimitazione e quindi della difesa dei propri confini.

Nell’ambito del nomadismo non è mai esistito lo schiavismo come sistema economico produttivo. Potevano esserci al massimo dei servi domestici (p.es. prigionieri catturati in un conflitto bellico), ma erano casi eccezionali. Il conflitto si poneva piuttosto tra chi possedeva terre e chi solo animali.

Generalmente pare naturale pensare che prima del possesso della terra ci sia stato quello degli animali, il cui allevamento non poteva tollerare confini geografici. Nondimeno se è l’intera tribù che si sposta al seguito delle proprie mandrie domestiche, alla ricerca di nuovi pascoli, è una cosa, ma se all’interno di una tribù emerge la figura dell’allevatore specializzato, che fa solo questo mestiere, è ben altra cosa: qui si deve quasi dare per scontato che la stanzialità preceda il nomadismo.

Se la stanzialità fa nascere l’agricoltura e l’allevamento intensivo, è evidente che a ciò deve aver contribuito una carenza di cibo. Non si può pensare a un processo spontaneo. Noi dobbiamo considerare il nomadismo più originario della stanzialità, meglio caratterizzante la natura umana, che ha continuamente bisogno di cercare ed esplorare.

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La stanzialità è una costrizione che viene accettata in cambio di alcune comodità o in situazioni di particolare necessità: non è una forma che arricchisce di esperienza, che permetta di ampliare le proprie conoscenze vitali e di avvertire l’intero pianeta come la propria casa.

Questo non vuol dire che nella stanzialità non si sviluppino le conoscenze. Il fatto è che queste conoscenze il più delle volte non servono allo sviluppo di una personalità autenticamente umana, che vuol vivere secondo natura. Sono conoscenze artificiose, astratte, utili più che altro a regolamentare rapporti conflittuali all’interno appunto di comunità stanziali.

Con il nomadismo tutto il mondo apparteneva all’uomo, non esistevano confini di sorta, ci si spostava seguendo i percorsi delle mandrie di animali selvatici, si praticava caccia e pesca là dove esisteva una selvaggina relativamente sufficiente. Per il resto si viveva di bacche, radici, frutti…

Con lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento il mondo deve essere suddiviso in forme di proprietà appartenenti a determinati clan o tribù, fino alle comunità di villaggio. I confini sono inevitabili. E’ il prezzo del relativo benessere.

Le tribù possono anche diventare nemiche, specie se una è dedita più all’agricoltura che all’allevamento e l’altra più a questo che a quella, o se addirittura una è dedita ad attività stanziali e l’altra pratica solo il nomadismo.

Tuttavia, in assenza di forme sociali antagonistiche interne a una tribù, vi sono scarse motivazioni per dominare altre tribù. Non esistono guerre di conquista. Vi possono essere battaglie per la difesa di un territorio, ma queste battaglie non arrivano mai a trasformarsi in guerre vere e proprie. Non esisteva infatti la concezione di poter usare gratuitamente il lavoro altrui.

Questa concezione implica già uno svolgimento di rapporti sociali, interni alla tribù, in direzione dello schiavismo: il che ovviamente presuppone una qualche differenziazione nella gestione della proprietà.

Se all’interno di una tribù esiste la possibilità di schiavizzare qualcuno, allora esiste anche la possibilità di trasformare una parte della proprietà pubblica in proprietà privata.

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Diversamente, ogni forma di lavoro servile può essere spiegata solo nel senso che determinate persone, uscite sconfitte da uno scontro bellico, venivano considerate da tutti i membri della tribù come persone di seconda categoria, i cui diritti erano limitati, e che sostanzialmente dovevano porsi al servizio di tutti i membri della tribù.

Se anche qualcuno della tribù poteva pretendere che una determinata persona sconfitta da lui stesso in battaglia, si ponesse al suo diretto servizio, di regola questa persona non svolgeva mai una quantità tale di mansioni da permettere a chi la dominava di non fare più nulla.

Spesso anzi lo stato di servitù era a tempo determinato e veniva considerato come propedeutico alla totale integrazione negli usi e costumi della tribù.

Persino nei tempi delle formazioni schiavistiche erano previsti periodicamente degli anni sabbatici in cui era possibile un qualche affrancamento degli schiavi.

L’individualismo non può nascere nelle foreste o nelle savane e forse neppure nelle steppe. Deve per forza nascere in luoghi impervi, poco frequentati, dove l’esistenza è difficile.

L’individuo che si stacca dalla comunità è costretto a rifugiarsi in territori che la comunità abitualmente non frequenta, perché appunto considera ostici, ostili o troppo lontani.

Qui nomadismo e sedentarietà hanno un senso relativo. Una comunità può essere nomade, senza per questo favorire l’individualismo (gli indiani d’America erano nomadi e collettivisti). Si può parlare di individualismo se una parte (minoritaria) della comunità accetta di diventare nomade, mentre il grosso rimane stanziale. Però va anche detto che le civiltà individualiste sono tutte stanziali, al punto ch’esse lottano strenuamente contro il nomadismo e non permettono che venga praticato al proprio interno (vedi ad es. i miti di Caino e Abele, di Romolo e Remo).

All’inizio i territori frequentati dall’individualismo sono i deserti, le alte montagne, le radure desolate. Qui diventa di prioritaria importanza l’uso delle poche risorse naturali disponibili. La principale di queste risorse è l’acqua dei fiumi. Non a caso attorno al Nilo, al Tigri, all’Eufrate… si formano le prime civiltà schiavistiche.

Chi si stacca dalla primitiva comunità teme di non farcela, si sente debole, impaurito. Deve per forza cambiare atteggiamento, mentalità, e diventare più autoritario. Deve a tutti i costi sopravvivere. E’ quindi inevitabile che per il controllo delle fonti energetiche si siano sviluppati modi di fare violenti, dove la forza fisica (militare) ha giocato un ruolo di primo piano.

In questa situazione conflittuale non ci ha rimesso solo la donna, ma anche l’uomo più debole, l’anziano, o quello troppo giovane. L’uomo forte, di una certa età, è diventato “signore” della propria famiglia-clan, con potere di vita e di morte. La civiltà individualistica è diventata inevitabilmente maschilista. Il culto della forza è diventato il primo valore.

La debolezza fisica si poneva come anticamera dello schiavismo. Tutte le persone deboli e successivamente quelle sconfitte in battaglia, venivano schiavizzate.

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Lo schiavo permetteva al libero di non lavorare e di limitarsi soltanto a controllare il lavoro altrui. Con la nascita delle civiltà, per la prima volta, il libero si poneva il problema di come rendere produttivo il lavoro. Di qui l’esigenza di creare delle scorte, cioè di stoccare le eccedenze, per potersi assicurare un’esistenza tranquilla in qualunque condizione ambientale.

Un lavoro era produttivo se permetteva di vivere senza lavorare in qualunque momento dell’anno. Lo schiavo era colui che, sconfitto dalla forza del libero, non possedeva nulla, se non la propria forza lavorativa.

Tutta la storia delle civiltà è la storia di una sopraffazione del forte sul debole ed è anche la storia dei tentativi, da parte dei deboli, di sottrarsi a questa violenza.

Di fronte alla resistenza dei deboli, i forti hanno elaborato forme di compromesso e ideologie di ogni sorta, con cui cercare di convincere pacificamente i deboli ad accettare il loro stato di soggezione, seppure attenuato nella sua durezza. Spesso il carattere più mite dello sfruttamento caratterizzava solo una parte della popolazione, quella più combattiva, e il suo prezzo veniva pagato da altri strati sociali più deboli…

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Stralcio testo tratto da un articolo di pubblicato sulla pagina umsoi.org sulla quale vi suggerisco di continuare la lettura…

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