Affrontare la mitologia greca (o più generalmente la mitologia greco-romana, detta anche «classica») vuol dire, per noi «occidentali», europei, raccontare una parte del nostro retaggio culturale, mentre l’altra parte è costituita da quello giudaico-cristiano.
Retaggio i cui miti continuano a informare il nostro immaginario.
Retaggio la cui mitologia parla a un tempo dell’insieme di questi miti e dell’interpretazione che ne può essere data. Infatti, è bene insistere sui due sensi della parola “mitologia”:

– Un primo senso secondo cui una mitologia è costituita da un insieme di miti e dai loro rapporti interni;

– Un secondo senso secondo cui la mitologia è lo studio dei miti, della loro origine, del loro significato, o ancora della loro struttura e della sua decodificazione.

L’espressione mitologia greca significa dunque a un tempo l’insieme dei miti greci e dei loro rapporti interni e lo studio e interpretazione di questi miti da parte di autori che del resto sono in generale anch’essi greci.

Anselm Feuerbach, Il simposio di Platone – Wikipedia, pubblico dominio

Prima di stendere la tabella delle «divinità» greche (potenze primordiali, titani, dei, giganti, mostri… tutti sottomessi peraltro al Destino), prima di raccontare (un po’) le gesta teocosmogoniche, quelle della «storia» degli dei, quelle degli eroi, la questione che ci tratterrà, prima di tutto e non al termine del percorso, concerne il valore che i Greci attribuirono ai loro miti e l’interpretazione che essi ne diedero.
Cammin facendo, ci accorgeremo che questa questione è infatti applicabile a ogni mito e a ogni mitologia, e che non è poi tanto lontana, mutatis mutandis, da questioni che ancor oggi possiamo porci noi. All’incirca  si può dire che le posizioni nei confronti dei miti si definiscono come segue:

–  I miti sono pura fabulazione, parlano di niente e per niente.

Nel migliore dei casi sono gioco gratuito, anodino, veniale. Nel peggiore, sono giochi pericolosi, dannosi per le conseguenze che si crede di poterne trarre. Questa è per esempio la posizione di Senofane di Colofone.

– I miti hanno un fondo di verità

Parlano di qualcosa e per qualcosa. In altri termini, utilizzando processi allegorici, dicono «altrimenti» ciò che si dovrebbe poter dire «veramente». Spesso giungono persino a mascherare ciò di cui parlano, ma che è possibile, e necessario, ritrovare «interrogandoli» correttamente. Essi sono l’«abito» di una realtà-verità.
Chi toglie l’abito può chiamare per nome la realtà-verità e da quel momento fare a meno del mito o vedervi solo un fregio allegorico, un procedimento letterario, un ornamento metaforico di quel che di astratto e concettuale ha il «reale-vero».

Per esempio, parlando degli dei, i miti in realtà parlano di eroi fondatori e civilizzatori. O ancora, raccontando le gesta degli «elementi» (acqua, ferro, terra), in realtà parlano della Natura. Sarà la posizione di un Evemero.

– I miti parlano di una verità “altra”

Una verità altra da quella che si lascia percepire nel discorso concettuale. I miti parlano di qualcosa per mirare a tutt’altra cosa. I miti raccontano l’«origine» (o la «fine») giacché «causa permanente».
Essi dicono quella «tutt’altra cosa» che a loro modo anche la poesia (o l’arte) come la filosofia cercano di dire. I miti raccontano l’ineffabile, l’indicibile, come apparve la «prima volta» e come sempre presente, questa tutt’altra cosa in ogni cosa.

Confrontando questi tre atteggiamenti, ci si accorge che i primi due hanno degli elementi in comune.
Infatti, situando il mito accanto alla favola, alla fabulazione, si discreditano per sempre da ogni pretesa di verità, per quanto minima possa essere. È dunque meglio non ricorrervi mai, poiché, da gioco veniale, il mito può trasformarsi in gioco mortale per lo spirito: gli impedisce di maturare, lo rende puerile.
Ma, d’altra parte, anche riconoscendo nel mito un fondo di verità, in realtà si rigetta, perché diventa inutile dopo essere stato interrogato. Come se, per il solo fatto di parlare di qualcosa, bisognerebbe sempre porsi la domanda: di che cosa si sta parlando? perché per ipotesi si potrebbe parlare di niente.
E dopo aver riconosciuto di cosa si parla «in verità», il mito diventa inutile, come una spiegazione insufficiente di fronte a una spiegazione migliore, inutile come una parvenza di verità davanti a una verità attestata.

Giulio Romano – Zeus fulmina i Giganti, dettaglio dell’affresco nella volta della “sala dei Giganti” – Palazzo Te, Mantova – Wikipedia, pubblico dominio

Solo il terzo atteggiamento conserva al mito il proprio valore e il suo dinamismo, sia che si creda in una verità tutt’altra, trascendente, per sempre invisibile, sia che si creda in una verità che, svelata, diventa visibile e dicibile.

Togliendo fondamento alla mitologia, non si trova la verità, anche se si scopre, nel migliore dei casi, il sapere. Riconoscendo un fondamento alla mitologia, non si trova il sapere, ma si è tesi a intuire la verità del «tutt’altra cosa», e la verità che fa corpo con la cosa.
Il bambino che mitifica la venuta del fratellino o della sorellina secondo il proprio immaginario personale e/o familiare, sociale, culturale, imparerà certamente, in seguito, se la sua cultura gliene darà l’occasione, cosa sono spermatozoi e ovuli. Ciò non toglie che la questione stessa del tutt’altro cui ogni nascita dà inizio sfugge al «sapere», poiché attinge a ciò che il mito, tale e quale o ripreso per l’immagine cui rimanda, non finisce mai di raccontare: la procreazione come creazione in cui l’«origine» continua a dirsi, a «parlare».

Poiché i Greci si sono interrogati sui propri miti, e hanno prodotto una propria mitologia, i loro miti fanno ancora parte della nostra cultura.
Per alcuni sono solo elementi decorativi o «letterari», per altri tracce storiche o socioculturali che, ben interrogate, possono ancora dispensare sapere o dare interessanti risposte. Per altri però, sono l’inesauribile indicibile che parla dell’uomo, degli dei o dei «poteri», di quel «tutt’altro» che probabilmente sono, di quel che si svela profondamente dell’esistente e può essere reso visibile proprio come un «corpo».

Se i miti greci e romani fanno ancora e sempre parte del nostro bagaglio culturale comune, mentre i miti celtici, slavi, germanici ne fanno parte solo occasionalmente o episodicamente (e i miti indiani, per ragioni evidenti, non ultima, la lontananza, ne sono esclusi) è proprio perché i Greci, già nel VI e V secolo prima della nostra era li avevano sottomessi al fuoco della loro critica, ma a partire dal principio fondamentale che non si potrebbe parlare di niente. Bisognava quindi che la Ragione raccogliesse la sfida e dicesse di cosa si stava parlando, quando si parlava in modo tanto bizzarro. Se non si diceva che il mito parlava di niente per niente — posizione di qualche «ateo» o «monoteista» poco rappresentativi —, il mito doveva avere uno statuto linguistico, se non «metafisico». Certo, esiste la «menzogna», ma escluderemo dalla nostra indagine molto limitata la difficile questione del rapporto fra «menzogna» e «verità».

Raffaello Sanzio – Platone – Dettaglio degli affreschi della Stanza della Segnatura – Palazzi vaticani – Wikipedia, pubblico dominio

Per concludere questa premessa, niente ci sembra più pertinente dell’esaminare il(i) trattamento(i) che Platone fa subire ai miti. Poiché, da una parte, se ne serve — e non importa, in questa sede, se li racconta alla propria maniera — e dall’altra li ripudia o, più spesso, seleziona quel che ne accetta da quel che non potrebbe ammettere. Gli capita anche di utilizzarli come «pietose menzogne», pedagogicamente o socialmente utili. Tanto basti a dire l’ambiguità del suo atteggiamento, smentita però dal suo ricorso al mito quando questo si rivela come l’unico modo di trasmettere l’immagine-pensiero (l’intuizione) di ciò il cui apprendimento attraverso il discorso sembra impossibile o troppo difficile ai pochi che possono avvicinarlo.

Lasceremmo dunque negligentemente che i bambini ascoltino qualsiasi favola inventata dagli ultimi arrivati, e che ricevano nell’anima opinioni quasi sempre contrarie a quelle che dovranno avere, a nostro avviso, quando saranno grandi?

Ponendo una domanda la cui risposta va da sé, Platone critica le nutrici, le cui favole sono per la maggior parte da rigettare. Poi se la prende con Esiodo, con Omero, con altri poeti che hanno composto favole menzognere. Cosa che però non gli impedisce di dire un po’ stranamente:
«Quand’anche la condotta di Cronos e la maniera con cui il figlio lo trattò fossero vere, credo che non bisognerebbe raccontare certe cose con tanta leggerezza a esseri sprovvisti di ragione e ai bambini, ma che sarebbe meglio seppellirle nel silenzio; e se è necessario parlarne, bisogna farlo in segreto… perché ci siano solo pochissimi iniziati. … Non bisogna dire davanti a un giovane ascoltatore che commettendo 
i crimini peggiori e punendo un padre ingiusto nel modo più crudele, egli non fa niente di straordinario e agisce come i primi e i più grandi fra gli dei»

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