Opi era la dea sabina il cui culto fu introdotto a Roma da Tito Tazio, il re sabino che regnò su Roma con Romolo.
Dea dell’abbondanza, che aveva in mano una cornucopia da cui uscivano i frutti della terra, quindi una Grande Madre, il nome “opera” deriva da lei.
La dea Opi, sposa di Saturno, aveva il compito di proteggere la fertilità, la natura, il grano mietuto e posto nei granai. Venerata come grande madre degli dei. Tutelava le montagne e le fortezze.
Essendo raffigurata con una corona che aveva la forma delle mura di una città era nota anche come Mater turrita.
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Divinità associate e parzialmente sovrapposte
Opi si distingue non sempre agevolmente da Abbondanza, la quale dispensava ricchezze non solo agrarie, nonché da Annonia, in quanto quest’ultima presiedeva esclusivamente ad una stagione, a sua volta distinta da Cerere, dea della fertilità e dei raccolti. Sempre della fertilità, ma anche femminile, era Bona Dea. Tutte e cinque si distinguevano da Tellus, la quale presiedeva tutta la terra, dalle ricchezze agrarie a quelle minerarie ed ai defunti. Tellus aveva un equivalente maschile, Dis Pater o Dite.
All’uomo moderno, Opi, Abbondanza, Annona, Cerere, Bona Dea e Tellus possono essere confuse come sei invocazioni differenti della stessa figura, che successivamente fu identificata con la anatolica Cibele, la gallica Rosmerta, nonché con le greche Demetra e Rea.
Tale molteplicità di figure si può in gran parte ricondurre al fatto che il culto romano arcaico, più che essere politeista, credeva a molte essenze di tipo divino: degli esseri invocati i fedeli non conoscevano molto più che il nome, le funzioni e il numen di questi esseri, ossia il loro potere, si manifestava in modi altamente specializzati. Poiché la coltura della terra e la raccolta delle messi occupava un ruolo centrale nella vita di allora, ne consegue l’interesse, la profusione dei riti, dei modi di invocazione e persino il numero delle figure invocate.
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