Tommaso riprende e sviluppa la teoria agostiniana della guerra giusta. Ne fa una quaestio, inserita nella trattazione della virtù della carità.
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Jean Froissart – Battaglia di Crécy tra inglese e francese nella guerra dei cent’anni. – Wikipedia, pubblico dominio

Alla domanda se fare la guerra sia sempre peccato (utrum bellare sit sempre peccatum), Tommaso risponde che, a certe condizioni, la guerra è giusta e si configura come un’azione umana di carità.
Lo fa articolando la domanda in altre quattro:

  1. se ci sia una guerra lecita (utrum aliquod bellum sit licitum);
  2. se ai preti sia lecito combattere (utrum clericis sit licitum bellare);
  3. se sia lecito ai belligeranti fare imboscate (utrum liceat bellantibus uti insidiis);
  4. se sia lecito combattere nei giorni festivi (utrum liceat in diebus festis bellare).

Ad ogni domanda risponde in modo netto e motivato.

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  1. Non sempre fare la guerra è peccato.

E’ vero che il Signore ha detto che di spada perisce chi di spada ferisce, ma, come già aveva scritto Agostino, “quegli aveva preso la spada senza che alcuna autorità gliene avesse concessa la facoltà”. Quindi la guerra è peccato quando la fanno persone non autorizzate. Infatti le persone private non hanno il potere di fare la guerra, potendo difendere il proprio diritto col ricorso al giudizio del loro superiore e non potendo raccogliere masse di soldati.

Carlo Crivelli – San Tommaso d’Aquino – Wikipedia, pubblico dominio

“E siccome la cura della cosa pubblica è riservata ai principi, spetta ad essi difendere lo stato della città, del regno o della provincia cui presiedono. E come lo difendono lecitamente con la spada contro i perturbatori interni, col punire i malfattori, secondo le parole dell’Apostolo: «Non porta la spada inutilmente: ché è ministro di Dio e vindice nell’ira divina per chi fa il male»; così spetta ad essi difendere lo stato dai nemici esterni con la spada di guerra. Ecco perché ai principi vien detto nei Salmi: «Salvate il poverello, e il mendico dalle mani dell’empio liberate». E S. Agostino scrive: «L’ordine naturale, indicato per la pace dei mortali, esige che risieda presso i principi l’autorità e la deliberazione di ricorrere alla guerra».”

La prima condizione della guerra giusta è che a farla siano i capi di Stato, ma non basta: la guerra deve avere una causa giusta.
Anche qui Tommaso cita Agostino: “Si sogliono definire giuste le guerre che vendicano delle ingiustizie: e cioè nel caso che si tratti di debellare un popolo, o una città, che hanno trascurato di punire le malefatte dei loro sudditi, o di rendere ciò che era stato tolto ingiustamente”.

La guerra è giusta se ripara un’ingiustizia. Ma deve essere fatta con retta intenzione, con carità.

“Si richiede che l’intenzione di chi combatte sia retta: e cioè che si miri a promuovere il bene e ad evitare il male. Ecco perciò quanto scrive S. Agostino: «Presso i veri adoratori di Dio son pacifiche anche le guerre, le quali non si fanno per cupidigia o per crudeltà, ma per amore della pace, ossia per reprimere i malvagi e per soccorrere i buoni». Infatti può capitare che, pur essendo giusta la causa e legittima l’autorità di chi dichiara la guerra, tuttavia la guerra sia resa illecita da una cattiva intenzione. Dice perciò S. Agostino: «La brama di nuocere, la crudeltà nel vendicarsi, lo sdegno implacabile, la ferocia nel guerreggiare, la smania di sopraffare, e altre cose del genere sono giustamente riprovate nella guerra».”

Riassumendo: ci vuole un’autorità legittima, una giusta causa e la retta intenzione, lo spirito di carità, perché la guerra sia giusta.

Tommaso pensa alla guerra come un procedimento giudiziario teso a punire un colpevole e a riparare un torto. Ma, o gli Stati sono subordinati ad un ordine giuridico internazionale, superiore e dotato di forza, che si assuma la funzione fare la guerra giusta, in base al diritto internazionale, o la guerra diventa un procedimento giudiziario improprio, perché una parte in causa pretende di essere giudice ed esecutore di sentenza.

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  1. I preti e i vescovi non possono usare le armi.

E’ vero che, se la guerra è giusta e combattuta con carità, combattere è meritorio, ma non è attività per i preti e i vescovi.

“Il bene dell’umana società richiede molte cose. Ora, mansioni diverse sono esercitate meglio e più agevolmente da persone diverse che da una sola, come spiega il Filosofo nella sua Politica. E alcune mansioni sono così incompatibili fra loro, da non potersi esercitare come si conviene simultaneamente. Perciò a coloro che sono incaricati di quelle più alte vengono proibite le mansioni più umili: secondo le leggi umane, per esempio, ai soldati, che sono destinati agli esercizi guerreschi, viene proibita la mercatura. Ma gli esercizi guerreschi per due motivi sono quanto mai incompatibili con gli uffici dei vescovi e dei chierici. Primo, per un motivo generale: perché gli esercizi guerreschi implicano gravissimi turbamenti; e quindi distolgono troppo l’animo dalla contemplazione delle cose divine, dalla lode di Dio e dalla preghiera per il popolo, che sono uffici propri dei chierici. Perciò, come è proibita ai chierici la mercatura, perché assorbe troppo l’animo, così è loro interdetto l’esercizio delle armi, in base all’ammonimento di S. Paolo: «Nessuno che militi per Dio s’immischia nei negozi del secolo».
Secondo, per un motivo speciale. Tutti gli ordini sacri infatti sono ordinati al servizio dell’altare, in cui si rappresenta sacramentalmente la passione di Cristo, come dice S. Paolo: «Quante volte voi mangiate questo pane e bevete questo calice, voi rammenterete l’annunzio della morte del Signore, fino a che egli venga». Perciò ai chierici non si addice uccidere, o spargere sangue; ma essere pronti piuttosto a spargere il proprio sangue per Cristo, onde imitare con i fatti ciò che compiono nel sacro ministero. Ecco perché fu stabilito che coloro i quali, anche senza peccato, spargono il sangue contraggano irregolarità. Ora, a chiunque abbia un ufficio è illecito ciò che lo rende incapace di esercitarlo. Perciò ai chierici è assolutamente illecito prender parte alla guerra, che è ordinata allo spargimento del sangue”.

I preti possono, però, partecipare alle guerre “non per combattere con le proprie mani, ma per assistere spiritualmente con le esortazioni, le assoluzioni e altri soccorsi spirituali i combattenti”. Inoltre “spetta ai chierici disporre ed esortare gli altri a combattere le guerre giuste”.

Come a chi ha fatto voto di verginità è riprovevole l’atto del matrimonio, per gli altri meritorio, così non è permesso ai chierici combattere perché “essi sono obbligati a un bene maggiore”.

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  1. In guerra le imboscate sono lecite.

Dire il falso o mancare alle promesse è sempre illecito, anche coi nemici, ma non sempre si deve dire tutto: in guerra è ragionevole tenere nascosti i propri piani d’azione, i preparativi di combattimento. Se in questa segretezza consistono le imboscate, è lecito servirsene nelle guerre giuste. “E propriamente queste imboscate non possono chiamarsi inganni; non sono in contrasto con la giustizia; e neppure col retto volere: infatti, sarebbe non conforme all’ordine (inordinata) la volontà di chi pretendesse che gli altri non gli nascondessero nulla”.

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  1. In una guerra giusta, se necessario, è lecito combattere nei di festivi.

“Per la salvezza della cosa pubblica, se la necessità lo richiede, è lecito ai fedeli combattere le guerre giuste nei giorni di festa: infatti, trovandosi in tale necessità, sarebbe un tentare Dio astenersi dal combattere”..

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Stralcio testo tratto da un articolo di Giuseppe Bailone (*) pubblicato a Torino il 24 maggio 2010 e ripreso nella pagina umsoi.org sulla quale vi suggerisco di approfondire la lettura…

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(*) Giuseppe Bailone è nato a Monasterolo di Savigliano nel 1943. Ha insegnato Storia e Filosofia nei licei. Tiene un corso di filosofia alla Fondazione Università Popolare di Torino. Ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999; Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino 2006. Del Facchiotami Norberto Bobbio ha scritto: “Non solo l’ho letto pagina dopo pagina, ma l’ho centellinato, scritto com’è con chiarezza, rigore, concisione … Leggo a fatica per l’indebolimento della mia vista. Ma la lettura del Suo libro, semplice, chiaro, netto nei giudizi, non solo non mi ha affaticato, ma mi ha dilettato, fatto riflettere e mi ha aiutato a capire che anche un vecchio stanco e sazio può provare la gioia di un nuovo incontro e il piacere dell’apprendimento”. (nota tratta da: http://www.unipopeditore.it/autori/bio/Giuseppe-Bailone/1 )

 

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