Composto nel 1773 o più probabilmente nel 1774, l’inno fa parte di un dramma omonimo, rimasto allo stato frammentario.
Dopo la sua prima pubblicazione, nello scritto di Friedrich Jacobi Über die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn (Sulla dottrina di Spinoza nelle lettere a Moses Mendelssohn) (1785), divenne subito celebre all’interno della vasta discussione sulla filosofia spinoziana della fine del Settecento.
Lessing, dichiarandosi spinozista, faceva riferimento infatti proprio all’inno goethiano, che fu da allora considerato, con le parole dello stesso Goethe “la scintilla di una esplosione che mise a nudo e manifestò i pensieri più segreti di uomini degnissimi, pensieri a loro stessi nascosti che giacevano inespressi in una società per altri versi altamente illuminata”.
Dei temi accennati nel breve dramma, ampi e complessi, l’inno affronta soprattutto la negazione dell’onnipotenza degli dei. Anche gli dei infatti, come l’uomo, sono soggetti al tempo e al destino.
Prometeo è intento a modellare figure a propria immagine e somiglianza, secondo l’immagine suggerita dalla fonte di Goethe, il dizionario mitologico di Benjamin Hederich.
Ponendo l’attività creatrice di Prometeo sullo stesso piano di quella di Giove, Goethe, come osserva Giuliano Baioni, supera la posizione del genio demiurgico settecentesco, che con Shaftesbury era visto solo come “secondo creatore”, sottoposto ad un dio creatore supremo. Se per Klopstock il poeta è strumento del dio creatore, il Prometeo goethiano rivendica l’indipendenza della terra dalla divinità e proprio nello spazio terreno da cui il dio viene sprezzantemente escluso riconosce la pienezza della vita umana cui egli dà origine.
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Copri il tuo cielo, Giove, col vapor delle nubi! E la tua forza esercita, come il fanciullo che svetta i cardi, sulle querce e sui monti! Ché nulla puoi tu contro la mia terra, contro questa capanna, che non costruisti, contro il mio focolare, per la cui fiamma tu mi porti invidia. Io non conosco al mondo nulla di più meschino di voi, o dèi. Miseramente nutrite d’oboli e preci la vostra maestà ed a stento vivreste, se bimbi e mendichi non fossero pieni di stolta speranza.Quando ero fanciullo e mi sentivo perduto, volgevo al sole gli occhi smarriti, quasi vi fosse lassù un orecchio che udisse il mio pianto, un cuore come il mio che avesse pietà dell’oppressoChi mi aiutò contro la tracotanza dei Titani? Chi mi salvò da morte, da schiavitù? Non hai tutto compiuto tu, sacro ardente cuore? E giovane e buono, ingannato, il tuo fervore di gratitudine rivolgevi a colui che dormiva lassù?Io renderti onore? E perché? Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto? Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?Non mi fecero uomo il tempo onnipotente e l’eterno destino, i miei e i tuoi padroni?Credevi tu forse che avrei odiato la vita, che sarei fuggito nei deserti perché non tutti i sogni fiorirono della mia infanzia?Io sto qui e creo uomini a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me, fatta per soffrire e per piangere, per godere e gioire e non curarsi di te, come me..
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testo tratto da cultureeuropee.irrepiemonte.it
vedi anche:
- Così Prometeo, che simboleggia l’ingegno umano, diventò immortale
- Il mito di Prometeo secondo Platone
- Prometeo, colui che rubò il fuoco agli dèi
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