Arriva il giorno in cui all’Angelo della Morte viene negato l’accesso.
Quel giorno egli rinascerà a miglior vita per rinnovarla negli uomini

Di Gaetano Barbella

Evelyn De Morgan – Angel of Death (Angelo della morte) – Wikipedia, pubblico dominio

Traggo da un racconto preso dal web lo spunto per rinnovare una storia antica che si ripete nel tempo, quella dell’angelo della morte che al tempo opportuno fa visita a coloro che devono morire e fa la parte del psicopombo. Ma il racconto che riprendo, quasi con un copia-incolla (chiedo venia agli autori), ha una svolta che non è stata prevista e che ora faccio trapelare rinnovando il concetto di morte come di un amaro che era inevitabile ma che svanisce riaccedendendo la vita umana.

«Quando si racconta una storia si “contagia” la mente di chi ci sta ascoltando, il quale raccontando a sua volta la stessa storia diffonderà il contagio: se la storia è potente, questo contagio può durare anche millenni.
È quello che è successo con una storia antica che ha rimbalzato di mente in mente: una storia universale, visto che parla di morte.

La prima apparizione di questa storia la troviamo nel Talmud (“Insegnamento”), che è uno dei testi sacri dell’ebraismo ed è conosciuto in due versioni: quella di Gerusalemme e quella babilonese, molto più lunga e redatta fra il V e il VI secolo d. C. ma contenente testi tramandati in forma orale sin da molti secoli prima di Cristo.

La storia del Talmud è una parabola che racconta di come un giorno Re Salomone si accorse che l’Angelo della Morte era triste. «Perché sei così triste?» gli chiese. «Perché mi hanno ordinato di prendere quei due Etiopi», risponde l’Angelo della Morte, riferendosi a Elihoreph e Ahyah, i due scribi etiopi di Salomone. Il Re volle salvare i suoi preziosi uomini e li fece scappare fino alla città di Luz, ma appena giunti qui i due scribi morirono. Il giorno seguente Salomone incontrò di nuovo l’Angelo della Morte e vide che sorrideva. «Perché sei così felice?» gli chiese. «Hai mandato i due etiopi proprio nel posto in cui li aspettavo!» risposte la Morte. Al che Salomone espresse la morale della parabola: «I piedi di un uomo sono responsabili per lui: essi lo portano nel luogo dove egli è atteso.». Suona strana come morale, visto che in realtà i due poveri scribi vennero mandati da Salomone a morire, non dai loro piedi.

Il seme è lanciato: varie versioni di questa parabola infiammeranno la creatività di autori fino ai giorni nostri, e prenderò in considerazione solo i lavori dal Novecento ad oggi, visto il loro alto tasso di “contagio” letterario.

La prima citazione che troviamo è purtroppo difficile da confermare. Nel suo romanzo del 1923, Le grand écart, il prolifico scrittore francese Jean Cocteau inserisce il testo conosciuto come “Il gesto della morte”.
Ed ecco che il racconto della morte è come la staffetta della 4×100 di atletica leggera, passa di mano in mano a ben più di quattro scrittori.

Dopo Jean Cocteau è la volta dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, il quale lo inserì prima nell’antologia Racconti brevi e straordinari (1953) e poi in Antologia della letteratura fantastica (1976). E se prendiamo per buona la citazione (visto anche che è stata inserita nell’autorevole Antologia della letteratura fantastica che contiene il fior fiore di questa produzione) allora dobbiamo pensare che il “contagio” letterario in dieci anni esatti fece… il salto della Manica.

Nel 1933 infatti il britannico William Somerset Maugham pubblica la sua ultima pièce teatrale: Sheppey, che finisce con la Morte che va a prendere il protagonista, il quale si rimprovera di non essere fuggito nell’Isola di Sheppey, dove sicuramente la Morte non sarebbe arrivata a prenderlo. E qui, per la Nera Signora, si ripete la trama della 53ª sukkah del Talmud Babilonese di re Salomone che sappiamo.

Ma non sappiamo se Maugham prese d’ispirazione il Talmud Babilonese o Cocteau per questa storia o se la inventò, né sappiamo se era consapevole di quanto sarebbe stata contagiosa.
Già l’anno successivo lo statunitense men che trentenne John O’Hara pubblica il suo primo romanzo, destinato a fama imperitura: Appuntamento a Samarra. Come spiega O’Hara stesso nell’introduzione all’edizione del ’52, originariamente il suo romanzo aveva per titolo The Infernal Grove (Il bosco infernale), ma quando la poetessa Dorothy Parker gli mostrò Sheppey di Maugham l’autore ne fu colpito: il racconto della Morte inevitabile lo aveva “contagiato” e non solo volle aggiungere il testo della Morte come citazione iniziale del libro, ma fece di tutto per cambiare il titolo del romanzo stesso in Appointment in Samarra.

Nel 2007 il celebre regista Brian De Palma, contagiato a sua volta dalla storia, gira il film Redacted intorno al racconto della Morte inevitabile così come lo riporta O’Hara. La pellicola è ambientata proprio vicino alla vera Samarra, in Iraq, dove alcuni soldati gestiscono un posto di blocco: uno di loro legge e racconta agli altri Appuntamento a Samarra di John O’Hara!

De Palma non è certo stato il solo a rimanere colpito dal romanzo di O’Hara: lo è stato anche il nostrano Roberto Vecchioni.
«Io notai questa bellissima favola orientale sul frontespizio di un libro, che era Appuntamento a Samarra di John O’Hara – racconta Vecchioni al giornalista Vincenzo Mollica nella video-intervista Parole e Canzoni (2002). – Però il raccontino era citato da Somerset Maugham, che è uno scrittore anglosassone, e mi piacque moltissimo perché era un modello di cultura poi tra l’altro non soltanto orientale: era di tutto il mondo.»
Nel 1977 Roberto Vecchioni ottiene il successo del grande pubblico con una canzone molto particolare: Samarcanda, contenuta nell’album omonimo e tormentone dell’epoca. Il ritornello di violino è scritto ed eseguito da Angelo Branduardi, il quale accompagnerà Vecchioni nell’esecuzione della canzone nel concerto del 1992 Camper.

Anche qui si ripete, come un ritornello, la storia iniziale di re Salomone.
E qui la storia sulla Morte si impernia sul suo esito che si impernia sulla parola Samarra che diventa Samarcanda, i luoghi ove avvenne l’incontro fatale. quasi a riprendere il luogo della prima originale versione della 53ª sukkah del Talmud Babilonese di re Salomine.

Si tratta di ipotesi all’azzardo…

Nel 1965, dodici anni prima della canzone di Vecchioni quindi, Oriana Fallaci scriveva ne Il sole muore: «Pensai piuttosto a quell’atroce racconto persiano dal titolo “Appuntamento a Samarcanda”. Nel giardino del re, la Morte appare a un servo. “Domani”, gli dice “ti vengo a prendere…” Allora il servo corre dal re e gli chiede il cavallo più veloce, per fuggire lontano: a Samarcanda. Arriva a Samarcanda, l’indomani, e la Morte è lì che lo aspetta. “Non è giusto”, grida il servo “non è leale”. “Perché?” risponde la Morte. “Sei fuggito senza farmi finire il discorso. Io ero in giardino per dire: domani ti vengo a prendere a Samarcanda”.»

Come si vede il racconto è pressoché identico alle versioni precedenti tranne che per due particolari: la città è Samarcanda invece di Samarra, e alla fine la Morte parla al servo e non al signore. Entrambe queste due variazioni si ritrovano nel testo di Vecchioni… e in nessun’altra versione della storia! Malgrado Vecchioni affermi di essersi ispirato ad una favola orientale conosciuta tramite John O’Hara, è molto più facile che invece abbia ripreso il testo di Oriana Fallaci: perché però non dirlo chiaramente?

Al di là della vera ispirazione di Vecchioni, sta di fatto che dalla fine degli anni Settanta in poi il nome Samarra scompare dalle traduzioni italiane!
Mentre infatti nel mondo anglosassone, grazie a O’Hara, è Samarra ad indicare l’ineluttabilità della Morte, in quello italiano sarà il nome Samarcanda. Così quando nel 1990 viene tradotto in italiano Ricordi di mezzanotte (Memories of Midnight) di Sidney Sheldon, il fugace riferimento a Samarra viene bellamente modificato. Di qui sono numerose le repliche letterarie sulle morte a Samarcanda, ma anche su Samarra.

  • «La Morte come un angelo, la Morte che dava appuntamento a Samarcanda», Robert Bloch, La mietitrice (Reaper, 1986).
  • «Conosce il racconto orientale Appuntamento a Samarcanda?» Gérard de Villiers, SAS Vendetta a Beirut (Vengeance à Beyrouth, 1993)
  • «La storia degli ultimi giorni di Mozart è entrata nella leggenda: un ignoto messaggero recapita una convocazione dall’aldilà per preparare un eroe predestinato a un appuntamento a Samarcanda.» Maynard Solomon, Mozart (Mozart. A Life, 1995).
  • «Andiamo, bellezza. Ho un appuntamento a Samarcanda, o qualcosa del genere.» James Patterson, A Jennifer con amore, 2004).

Per amor di verità vanno citate anche le eccezioni:

  • «Chi ha un appuntamento a Samarra non si dirigerà invece verso Newark.» Ed McBain, Una città contro (Downtown, 1989).
  • «Qualcosa sul destino, gli pareva, e su certi appuntamenti in Samarra.» Stephen King, Insomnia (1994).» (1)

Che dire sulla valenza delle due versioni se si esaminano i due luoghi della Morte, Samarcanda e Samarra? Quasi a preludere una sorta di bastone fra le ruote della macchina della Morte nel tempo. E se non fosse per la prima versione sull’angelo della Morte della storia della 53ª sukkah del Talmud Babilonese di re Salomone, da cui tutto ha avuto origine, forse non se ne verrebbe a capo perché si è trascurato il fatto che Dio diede a Salomone la saggezza, una grandissima intelligenza, un’estensione di mente vasta come la sabbia che è sulla riva del mare.
La saggezza di Salomone superava
quella di tutti gli orientali e degli Egiziani. Era più saggio di ogni altro uomo.

Salomone, pur essendo una figura nata nella cultura ebraica, appare cinque volte anche nel Corano (2:102; 21:81-82; 27:15-45; 34:11-13; 38:30-34), dove si ribadisce la sua importanza come saggio profeta a cui obbediscono i venti e gli altri esseri viventi. L’Islam vede Salomone come uno degli eletti di Dio, a cui sono stati conferiti molti doni dati da Dio, inclusa la capacità di parlare agli animali e ai jinn o djin. I jinn sono spiriti elementali. In tutto l’Oriente, specialmente nelle leggende arabe, i jinn erano al servizio di maghi che sapevano come dominarli. Così, secondo la leggenda, il tempio di Salomone fu costruito dai jinn. Quando Davide morì, Salomone ereditò la sua posizione di re profetico degli israeliti. Pregò Dio di concedergli un Regno che sarebbe stato diverso da qualsiasi altro dopo di lui. Dio accettò la preghiera di Salomone e gli diede ciò che voleva. Fu in questa fase che Salomone iniziò ad acquisire i molti doni che Dio gli avrebbe concesso per tutta la vita. Il Corano narra che il vento fu reso sottomesso a Salomone, che poteva controllarlo a suo piacimento, e che anche i jinn passarono sotto il controllo di Salomone.

Tutto questo per far riflessione sulla storia della 53ª sukkah del Talmud Babilonese in cui re Salomone, nell’intento di salvare i due fedeli Etiopi li fece scappare fino alla città di Luz. Ma appena giunti a Luz i due scribi morirono. Il resto della storia lo sappiamo, tuttavia fa meraviglia che il sapiente e saggio re Salomone abbia commesso un errore di valutazione. Come a supporre che essa non è vera, ma la sua sapienza gli aveva suggerito di camuffarla e per venirne a capo basta esaminare bene il luogo della presunta morte dei due Etiopi in cui non poteva mai avverarsi tale evento. Ed è vera la morale della sua parabola:
«I piedi di un uomo sono responsabili per lui: essi lo portano nel luogo dove egli è atteso
Ma non per morire, per risorgere a nuova vita: a LUZ non poteva accedere l’angelo della Morte, giammai.

Enrico Cornelio Agrippa, alchimista ed esoterista del XV secolo, nella sua opera “La filosofia occulta” scrive:
Nel corpo umano vi è un certo osso minimo, che gli ebrei chiamano
Luz, nella grossezza d’un cece mondato, che non è oggetto ad alcuna corruzione, che è vinto dal fuoco, ma si conserva sempre illeso, dal quale (come dicono) come una pianta da un seme, nella resurrezione dei morti il nostro corpo umano ripullula, e queste virtù non si dichiarano col ragionamento ma colla esperienza”.
Un osso, dunque, che conserva la nostra linfa vitale, la nostra anima, il ricordo delle nostre esperienza passate. Un osso che racchiude la nostra intera vita, o, stando alla leggenda, le nostre intere vite; tutte. Un osso che, grazie alla sua alchimia, permette all’anima di rinascere.
Molto prima di Agrippa, già il rabbino Uschaia, nel 210 d.C. aveva scritto del piccolo osso avente proprietà divine. Si narra che l’imperatore Adriano chiese al Rabbino Hananiah come avvenisse la resurrezione del corpo e questi gli rispose rievocando e dando prova della leggenda: si fece portare un ossicino che, per quanto egli tentasse di disintegrarlo, rimase intatto, perfetto nella sua modestia.
Quel nocciolo indistruttibile venne chiamato Luz, che in aramaico è appunto il nome del coccige, perché nel Talmud, testo classico dell’ebraismo, è associato con la città di Luz, luogo a cui, leggiamo in Genesi, sarà dato nome di Bethel da Giacobbe, in seguito al noto sogno ch’egli ebbe presso quella città.

Luz, si narra, era popolata da abitanti immortali, poiché in essa l’Angelo della Morte non aveva accesso, e coloro che, nell’immortalità, erano ormai stanchi della vita, venivano portati fuori dalle mura della città, così che l’Angelo potesse far loro visita.
La tradizione talmudica continua narrandoci di un mandorlo, sito, appunto, vicino alla città di Luz, e alla cui base si trova una cavità attraverso la quale si penetra nella città, in realtà completamente nascosta.

È singolare, narrando ciò, sapere che il termine Luz ha linguisticamente una radice che indica tutto ciò che è nascosto e celato. Ma è, soprattutto, importante sottolineare che lo stesso termine, in ebraico, designa il mandorlo ed il suo frutto. Da qui si deduce il motivo per cui il Luz viene definito anche “nocciolo dell’immortalità”, così come la città che porta il suo stesso nome rappresenta il “soggiorno dell’immortalità”.

È affascinante pensare di avere una parte del corpo che rappresenti, in qualche modo, l’embrione di noi stessi, il punto da cui risorgere, da cui ritrovarsi, un punto indistruttibile, fisicamente e spiritualmente così potente da non farci morire mai veramente. (2)

L’osso di Luz può essere accostato alla remora, il pesce immortale dell’alchimia, il segno, che gli ermetisti hanno chiamato Sigillo di Hermes, Sale dei Saggi, ‒ cosa questa che getta la confusione nello spirito dei ricercatori, ‒ segno e impronta dell’Onnipotente, ed anche sua firma, ed ancora Stella dei Magi, Stella polare, ecc. Questa disposizione geometrica sussiste ed appare con maggiore definizione quando si è messo a sciogliere l’oro nel mercurio, per portarlo al suo stadio primitivo, quello di oro giovane o ringiovanito, in una parola di oro bambino. Per questa ragione, il mercurio, fedele servitore e Scel della terra, è chiamato Fontana di giovinezza. Quindi i Filosofi si esprimono chiaramente quando insegnano che il mercurio, una volta effettuata la soluzione, porta il bambino, il Figlio del Sole, il Piccolo Re (Reuccio), come una vera e propria madre, perché, in effetti, l’oro, nel suo seno, rinasce. «Il vento, – cioè il Mercurio alato e volatile, – lo ha portato nel proprio ventre », ci dice Ermes nella sua Tavola Smeraldina. […].».

Il vento: gli jinn o dji, gli spiriti elementali di re Salomone.

Notare che nelle iconografie le culle sono le classiche ceste di vimini intrecciati dove è adagiato il bambino ermetico appena nato.

Brescia, 28 novembre 2023

 

Note:

(1)  https://www.carmillaonline.com/2013/09/22/la-parabola-della-morte-inevitabile-1/
(2) https://culturificio.org/luz-lebraico-nocciolo-dellimmortalita/

.