Nell’universo religioso dei Romani esistevano spiriti silenziosi e potenti, invisibili ma sempre presenti: i Geni. Erano considerati divinità minori, custodi della vita degli uomini e delle famiglie, incarnazione stessa del loro principio vitale.

Il genius corrispondeva al daimon dei Greci, a quelle presenze invisibili che accompagnavano ogni individuo dalla nascita alla morte. Per i Romani era uno spirito benevolo, quasi un angelo custode, capace di orientare i gesti e le scelte di chi proteggeva.

Nel cuore della vita domestica, il più venerato era il genius del pater familias, simbolo dell’autorità e della continuità della stirpe.

Genio alato, affresco proveniente da una villa romana di Boscoreale – Museo del Louvre – Wikipedia, pubblico dominio.

Ma con il tempo il culto travalicò i confini privati per assumere una dimensione pubblica. Così ogni luogo ebbe il suo spirito: il genius loci, raffigurato spesso come un serpente, immagine sacra che suscitava rispetto e timore. Anche l’intero popolo romano aveva un suo genio, rappresentato con le sembianze di un giovane, mentre con Augusto nacque il culto del genius dell’imperatore vivente, a sancire la sua aura divina.

Il Genio raffigurato come un serpente, nel larario della casa dei Vetti, a Pompei. Wikipedia, autore della foto: Patricio Lorente, licenza CC BY-SA 2.5

Accanto a queste figure maschili vi era il corrispettivo femminile: la Iuno, spirito che accompagnava e proteggeva ogni donna nel corso della sua vita.

Col tempo, la parola “genio” si diffuse ben oltre la religione romana, arrivando a indicare spiriti minori e presenze mitiche di ogni genere. Custodi dei boschi e dei fiumi, spiriti legati alla fertilità, all’amore o alla natura: entità ora benevole, ora dispettose o malevole, ma sempre intrecciate con la vita degli uomini.
In questo intreccio di fede, mito e simbolo, i Geni hanno continuato ad abitare l’immaginario collettivo, ricordandoci che, per gli antichi, nessun passo dell’esistenza era mai davvero compiuto in solitudine.

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