Il nome Giona, dall’ebraico Jonah, significa “colomba”, simbolo di pace e di riconciliazione. È uno dei dodici profeti minori dell’Antico Testamento, e la sua vicenda, raccontata nel Libro di Giona, è una delle più enigmatiche e umane di tutta la Scrittura.

Giotto – Cappella degli Scrovegni – Giona inghiottito dalla balena – Wikipedia, pubblico dominio.
Giona, figlio di Amittai, riceve da Dio un ordine chiaro: andare a Ninive, la grande capitale dell’impero assiro, per annunciare la necessità della penitenza. Ma il profeta non accetta il mandato.
Forse teme la potenza di Ninive, o forse non riesce ad accettare che Dio voglia salvare un popolo straniero e nemico.
Così, invece di dirigersi verso oriente, fugge nella direzione opposta: si imbarca a Joppe (Giaffa) su una nave diretta a Tarsis, il luogo simbolico dell’estremo Occidente, come se volesse fuggire non solo da Dio, ma dal proprio destino.
Durante la traversata, una tempesta improvvisa scuote la nave. I marinai, spaventati, invocano i loro dèi, finché Giona confessa: la colpa è sua, sta fuggendo dal Signore.
Per placare la furia del mare, chiede di essere gettato in acqua. I marinai esitano, ma alla fine lo fanno, e subito il mare si calma.
Giona sprofonda nell’abisso, ma non muore: viene inghiottito da un grande pesce, dove resta per tre giorni e tre notti.
Dal ventre della creatura, in un canto di riconciliazione e gratitudine, eleva a Dio la sua preghiera:
«Nella mia angoscia ho invocato il Signore, ed egli mi ha risposto».
E il pesce, su ordine divino, lo rigetta sulla spiaggia.
Rinato dal profondo del mare, Giona finalmente obbedisce. Va a Ninive e, per tre giorni, percorre la città annunciando la fine imminente: «Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!».
Ma accade l’inatteso: i niniviti credono al messaggio, si pentono, digiunano e si vestono di sacco. Anche il re depone la corona e si inginocchia, chiedendo perdono.
Dio vede il loro cuore e revoca la condanna: la misericordia prevale sulla giustizia.
Eppure Giona non gioisce. Si sente tradito, confuso, forse umiliato.
Egli voleva che Ninive fosse punita, che il male ricevesse la giusta ricompensa. Ma Dio lo rimprovera con dolce fermezza, mostrandogli che la sua compassione non conosce confini:
«Tu ti rattristi per una pianta che non hai fatto crescere, e io non dovrei avere pietà di Ninive, dove ci sono più di centoventimila persone che non sanno distinguere la destra dalla sinistra?».
In quelle parole si racchiude il cuore del messaggio: Dio non è il Dio di un solo popolo, ma il Dio di tutti gli uomini, anche dei peccatori, anche dei nemici.

Giona viene risputato dal pesce per ordine di Dio e lasciato sotto un albero di zucche. – Metropolitan Museum of Art. – Wikipedia, pubblico dominio.
Gli studiosi datano la composizione del Libro di Giona al periodo post-esilico (V-IV secolo a.C.), un’epoca di riflessione teologica profonda dopo il ritorno da Babilonia.
Non si tratta di un racconto storico in senso stretto, ma di una storia profetica, una parabola che usa l’immaginazione per rivelare una verità spirituale.
Il pesce, la tempesta, la pianta che cresce e muore: ogni elemento diventa un simbolo del cammino umano verso Dio, della fuga e del ritorno, del giudizio e della misericordia.
Il libro di Giona non parla solo di un profeta disobbediente, ma dell’eterna lotta interiore dell’uomo con la volontà di Dio.
In Giona c’è la nostra paura di cambiare, il nostro desiderio di fuggire dalle responsabilità, la difficoltà di comprendere un amore che abbraccia anche chi riteniamo indegno.
Ma Dio, paziente e misericordioso, attende sempre il nostro ritorno: non per punire, ma per trasformare la colpa in comprensione e la fuga in cammino.
Giona, “la colomba”, diventa così il simbolo della pace ritrovata tra l’uomo e il divino, la testimonianza che la salvezza non ha confini, e che ogni vita, anche quella più esitante, può tornare a volare verso la luce.
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