
Una vista assonometrica dell’abbazia di Cîteaux, la storica culla della Riforma Cistercense, ove Bernardo di Chiaravalle iniziò la sua missione. – Wikipedia, pubblico dominio
Nel 1111 fece ritorno al castello paterno di Fontaines e, poco dopo, si ritirò nella casa di famiglia a Châtillon insieme ai fratelli, ad alcuni parenti e amici, per condurre una vita di preghiera e raccoglimento. L’anno successivo, insieme a circa trenta compagni, entrò nel monastero cistercense di Cîteaux, guidato da Stefano Harding e fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes.
Nel 1115, con dodici confratelli, tra cui quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì in Champagne, su un terreno donato da un parente, lungo le rive del fiume Aube nella diocesi di Langres. Qui sorse il nuovo monastero cistercense, che prese il nome di Clairvaux, ovvero “Chiara Valle”.
Grazie all’approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e a numerose donazioni, l’abbazia crebbe rapidamente in importanza e prestigio. Già nel 1118 i monaci di Clairvaux partirono per fondare nuovi monasteri, come quelli di Trois-Fontaines, Fontenay, Foigny, Autun e Laon. Alla morte di Bernardo, i monasteri cistercensi erano 343, di cui ben 66 fondati o riformati da lui stesso.
Bernardo si dedicò con determinazione alla difesa dell’ortodossia, combattendo eresie e ribadendo il primato assoluto della Chiesa. Al concilio di Sens (1140), condannò le dottrine di Pietro Abelardo, e si oppose anche a Gilberto Porretano e ad Arnaldo da Brescia.

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La sua visione spirituale si basava sul rifiuto della ragione come via per giungere a Dio, privilegiando invece la mistica, l’umiltà e l’annullamento della volontà personale per unirsi ai disegni divini. Per Bernardo, la curiosità intellettuale era un pericolo: la conoscenza fine a sé stessa rappresentava una “turpe curiosità”. La sua dottrina segnò profondamente il pensiero medievale, sia sul piano spirituale che politico, influenzando i concetti di autorità papale e il simbolismo delle “due spade”.
In una lettera al cugino Roberto (1124), Bernardo criticò la vita monastica dei benedettini di Cluny, giudicata troppo lontana dagli ideali di povertà e austerità. Sostenne la superiorità della regola cistercense, più rigorosa e fedele a San Benedetto. La polemica sfociò nella celebre Apologia all’abate Guglielmo, a cui rispose Pietro il Venerabile, difendendo la legittimità di una lettura più flessibile della regola benedettina.
Nel 1130, in occasione del controverso doppio conclave seguito alla morte di Onorio II, Bernardo sostenne con decisione l’elezione di Innocenzo II contro l’antipapa Anacleto II, garantendo il riconoscimento del primo da parte dei regni europei.
Non mancò di intervenire anche in nomine episcopali, spesso con metodi diretti: accusò di simonia e scorrettezze alcuni vescovi e promosse amici e parenti fidati a importanti sedi, come il cugino Goffredo a Langres o Enrico Murdac a York.

Di The Monks of Baudeloo (Boudelo) Abbey – “Sancti Bernardi Melliflui Doctoris Ecclesiae, Pulcherrima & Exemplaris Vitæ Medulla”, p. 40, Antwerp, 1653., Pubblico dominio, Collegamento
Nel 1119, alcuni cavalieri guidati da Ugo di Payns, parente di Bernardo, fondarono l’Ordine dei Templari a Gerusalemme per proteggere i pellegrini cristiani. Bernardo sostenne l’iniziativa, ne ispirò probabilmente la regola e scrisse l’Elogio della nuova cavalleria (De laude novae militiae) intorno al 1135.
Fu anche protagonista della politica francese, intervenendo nei conflitti tra il re Luigi VII e il conte di Champagne Tibaldo II, e nella repressione del Comune di Reims nel 1140, sostenendo il vescovo cistercense Sansone di Mauvoisin.
Uno degli scontri teologici più noti fu quello con Pietro Abelardo.

Petrus Abaelardus: Ne iuxta Boetianum. Apologia contra Bernardum. (12. Jh.); ex Codices latini monacenses n° 28363. – Wikipedia, pubblico dominio
Accusato di eresia da Guglielmo di Saint-Thierry, Abelardo fu attaccato pubblicamente da Bernardo, che lo accusò di ridurre la fede a mera opinione.
Nonostante la richiesta di Abelardo per un confronto al concilio di Sens (1140), Bernardo si mosse per una condanna preventiva, presentando affermazioni considerate eretiche, alcune delle quali non autentiche. Abelardo abbandonò il concilio e fu condannato dai vescovi e successivamente da papa Innocenzo II.

Bernardo di Chiaravalle – Wikipedia, pubblico dominio
Nel 1144, Bernardo fu avvisato da Evervino di Steinfeld della diffusione di una setta pauperistica a Colonia e rispose con una serie di sermoni (n. 63-66).
L’anno seguente si recò a Tolosa per contrastare l’eresia di Enrico di Losanna, che proponeva una religiosità spoglia e critica verso la gerarchia ecclesiastica. Dopo un confronto diretto e una professione di fede, Bernardo tornò a Chiaravalle, scrivendo la Lettera 242 per riaffermare la vittoria dottrinale.
Nel 1148, cercò invano di far condannare le tesi trinitarie di Gilberto Porretano, trovando però resistenza nei vescovi. Solo l’intervento del papa, Eugenio III, suo antico allievo, portò a una parziale soluzione.
Nel 1145, il nuovo papa Eugenio III, ex cistercense formato da Bernardo, lo incaricò di predicare la Seconda Crociata.

Bernardo predica la II Crociata. – Wikipedia, pubblico dominio
Bernardo riuscì a coinvolgere sia i francesi che i tedeschi, ma la spedizione si concluse in un fallimento.
Per giustificarlo, scrisse La considerazione, un trattato nel quale attribuì la disfatta ai peccati dei crociati.
Nel testo, completato nel 1152, Bernardo delineava anche il ruolo del papato e lo dedicò a Eugenio III, alle prese con le tensioni politiche innescate da Arnaldo da Brescia e dal movimento repubblicano romano.
Le sue condizioni di salute peggiorarono nel 1152, ma trovò ancora la forza per un ultimo viaggio a Metz per riportare la pace.
Tornato a Chiaravalle, apprese della morte di Eugenio III (8 luglio 1153) e morì un mese dopo, il 20 agosto 1153. Fu sepolto di fronte all’altare dell’abbazia, vestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena scritto la biografia.

Dante – Ritratto di Gustave Doré – Wikipedia, pubblico dominio
segue stralcio tratto da: https://it.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Paradiso/Canto_XXXIII
Paradiso
« Canto XXXIII, il quale è l’ultimo de la terza cantica e ultima; nel quale canto santo Bernardo in figura de l’auttore fa una orazione a la Vergine Maria, pregandola che sé e la Divina Maestade si lasci vedere visibilemente. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
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“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!”.
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer “poco”.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
stralcio tratto da: https://it.wikisource.org/wiki/Divina_Commedia/Paradiso/Canto_XXXIII
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