
Madrid, Museo Arqueológico Nacional. Dama de Galera. – Wikipedia – Foto di Miguel Hermoso Cuesta (opera propria) rilasciata con licenza CC BY-SA 4.0
Asherah, conosciuta anche come Athirat, Airat, Asherat o Sherah, è una delle più antiche e misteriose divinità del pantheon semitico. Nata nei culti dell’area siro-palestinese, compare in numerose fonti accadiche e ugaritiche, e viene generalmente identificata con la dea ugaritica Athirat, la “Signora del Mare”.
Nei testi di Ugarit, anteriori al 1200 a.C., il suo titolo completo è “Colei che cammina sul mare”, un epiteto che ricorre più volte nell’Epica di Ba’al, dove la dea appare come sposa del dio supremo El e madre dei suoi settanta figli, simbolo dell’intera famiglia divina.
Nel mondo ugaritico, Athirat occupava un ruolo centrale: era la Grande Madre, fonte di vita e fertilità, ma anche mediatrice tra il divino e l’umano.
Nelle tavolette di Ras Shamra, la sua figura si distingue nettamente da quella di Astarte (ʿAshtart), dea dell’amore e della guerra. Tuttavia, nelle epoche successive, questa distinzione tende a confondersi, sia per il naturale sincretismo religioso del Levante antico, sia per errori di trascrizione nei testi.
Le tracce del culto di Asherah sopravvivono anche nella Bibbia ebraica, nonostante gli sforzi degli autori e redattori di cancellarle.
Nel Secondo Libro dei Re si menziona una statua di Asherah nel Tempio di Gerusalemme, alla quale venivano offerti oggetti di tessuto realizzati dalle donne del santuario. È un dettaglio che suggerisce un culto ufficiale, in un’epoca in cui la religione israelita non era ancora rigidamente monoteista.

Statuetta a colonna della dea Asherah. Giudea, 8-6 c. AC. Museo Eretz Israel. Terracotta. – Wikipedia, pubblico dominio
Il termine “asherah” compare nei testi con un duplice significato: può indicare sia la divinità, sia l’oggetto sacro, spesso un palo rituale o albero consacrato, che ne rappresentava la presenza nei luoghi di culto cananei.
Come osserva lo studioso J. Edward Wright, la scelta di tradurre “Asherah” con “albero sacro” in molte Bibbie moderne rivela “il desiderio, consapevole o meno, di nascondere la dea dietro un nuovo velo simbolico”.
Anche il Libro di Geremia, scritto intorno al 628 a.C., sembra contenere un riferimento ad Asherah quando parla della “Regina dei Cieli” (Geremia 7 e 44): una figura femminile celeste che riceve offerte e incensi, e che molti studiosi identificano proprio con la dea madre semitica.
Per l’archeologo Aaron Brody, dell’Università del Pacifico, l’antico Israele fu a lungo politeista. Solo una piccola minoranza venerava esclusivamente Yahweh prima della distruzione del Primo Tempio nel 586 a.C.
Fu proprio quel trauma storico a favorire una visione religiosa più universale: l’idea di un Dio unico non solo per Giuda, ma per tutti i popoli.
In questo passaggio, la figura di Asherah venne progressivamente rimossa o reinterpretata, fino quasi a scomparire.
Le evidenze archeologiche, tuttavia, continuano a parlare. Nei territori dell’antica Giudea sono stati ritrovati numerosi idoletti femminili a pilastro, che molti interpretano come raffigurazioni della dea. Il dibattito accademico resta aperto: sono simboli della fertilità, madri divine o semplici ex-voto?
Forse tutte queste cose insieme.
In ogni caso, la loro persistenza testimonia la forza archetipica di una figura che, pur rimossa dalla teologia ufficiale, rimase a lungo radicata nella devozione popolare.
Asherah rappresenta l’eco di un tempo in cui il sacro aveva ancora un volto materno. La sua progressiva cancellazione riflette non solo l’ascesa del monoteismo, ma anche l’esclusione del principio femminile dalla sfera del divino.
Oggi, nel suo nome, riaffiora la memoria di una spiritualità antica, che riconosceva nella donna e nella terra le sorgenti della vita e del mistero.
Riscoprire Asherah non significa opporsi alla storia, ma ricucire un frammento perduto del sacro, restituendo voce alla Madre dimenticata
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