Nell’antico Egitto, la donna era considerata “la signora della casa”, un titolo che racchiudeva insieme dignità domestica e responsabilità sociale.
La sua vita, come quella dell’uomo, rifletteva la posizione nel tessuto sociale:

    • Le donne del popolo si dedicavano ai lavori quotidiani : macinavano i cereali, preparavano la birra, filavano e tessevano il lino.
    • Le donne di rango nobiliare sovrintendevano alle ancelle e alla gestione della casa, incarnando un ideale di equilibrio e di misura che rispecchiava l’ordine stesso dell’universo egizio, la Ma’at.

Antico Egitto: ritratto di una signora con tipica acconciatura a treccioline – Wikipedia, pubblico dominio.

La donna condivideva con il marito la vita sociale e familiare. Portava con sé una dote che, in caso di vedovanza, le veniva in parte restituita grazie a un contratto legale.
Per la legislazione egizia, sorprendentemente avanzata per l’epoca, la donna godeva di piena capacità giuridica: poteva possedere beni, stipulare contratti e comparire in tribunale.
Il marito era tenuto per legge a provvedere al mantenimento della moglie, mentre l’educazione dei figli era un compito condiviso, con una particolare attenzione materna per la formazione delle figlie femmine, a cui venivano trasmessi valori di modestia, ordine e dedizione.

Il matrimonio non era un sacramento religioso, ma un accordo civile e familiare, suggellato da una festa tra le due case e dal trasferimento della sposa nella dimora del marito.
Le unioni erano spesso combinazioni familiari, talvolta tra consanguinei, e la sposa, generalmente molto giovane, veniva data in moglie a un uomo più maturo.
Chi sposava una schiava viveva al di fuori della legalità, e i figli nati da quell’unione restavano schiavi.
All’interno dell’harem, le donne potevano godere di un’apparente agiatezza, ma vivevano in realtà in una condizione di confinamento, separate dal mondo esterno e private della libertà di movimento.

Antico Egitto: signore ad un banchetto – Wikipedia, pubblico dominio.

I contratti matrimoniali scritti si diffusero solo in epoca tarda, ma regolavano con chiarezza i diritti della donna anche in caso di divorzio.
In caso di separazione, la moglie riceveva una parte del patrimonio, di solito un terzo di quanto stabilito al momento delle nozze.
Le principali cause di divorzio erano l’adulterio e la sterilità.
Mentre l’infedeltà del marito era socialmente tollerata, egli poteva perfino prendere una seconda moglie, l’adulterio femminile era un crimine severamente punito, con frustate o mutilazioni, a testimoniare la doppia misura morale che caratterizzava anche una società tanto raffinata.

Raffigurazione di Nefertari su una parete della sua tomba, nella Valle delle Regine – Wikipedia, pubblico dominio.

Nella morte, però, ogni differenza si annullava.
La donna egizia aveva diritto a una tomba propria, esattamente come l’uomo. Le iscrizioni e le pitture funerarie la ritraggono accanto al marito, ma spesso anche sola, nell’atto di ricevere offerte o di compiere riti, segno che il suo passaggio nell’aldilà era indipendente e degno di rispetto.
In un mondo dove ogni gesto era riflesso dell’ordine cosmico, anche la donna contribuiva al mantenimento della Ma’at, l’armonia universale tra vita, morte e rinascita.

La condizione della donna egizia ci appare oggi come un miracolo di equilibrio tra tradizione e autonomia. In un tempo in cui la maggior parte delle culture relegava il femminile ai margini, l’Egitto le riconosceva diritti civili, libertà economiche e dignità spirituale.
Eppure, accanto a questa libertà, persistevano limiti e contraddizioni: il controllo della sessualità, le differenze di potere, la dipendenza familiare.
Nel volto della “signora della casa” si riflette l’intera società egizia: gerarchica e armoniosa, ma anche fragile, sospesa tra giustizia e disuguaglianza.
Riscoprire oggi la figura della donna egizia significa tornare alle radici della civiltà, dove la cura, la misura e la forza femminile erano considerate pilastri dell’ordine del mondo.

 

 

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