Tantalo, primo re della Lidia o, secondo alcuni, della Frigia,  non fu un uomo qualunque. Era infatti un semidio, nato dall’unione di Zeus con la ninfa Taigete, e per questo amato e onorato dagli dèi.
Tanto grande era la sua fortuna che gli Olimpi lo accolsero spesso alla loro mensa, facendolo partecipe dei banchetti divini. Ma proprio questa vicinanza con l’eternità divenne la sua rovina: l’orgoglio e l’arroganza lo spinsero a commettere colpe imperdonabili, che lo avrebbero consegnato a un destino eterno di tormento.

Tantalo trasgredì più volte le sacre leggi della xenia, l’ospitalità che regolava i rapporti tra uomini e dèi.
Si dice che avesse rapito Ganimede, l’amato coppiere di Zeus; altre fonti lo accusano di aver rubato nettare e ambrosia, i cibi divini, per distribuirli ai suoi sudditi. Come se non bastasse, un altro mito racconta il furto del cane d’oro, custode di un tempio di Zeus a Creta. In questa versione, l’autore del sacrilegio era Pandareo, che affidò la preziosa creatura a Tantalo perché la tenesse nascosta. Quando Ermes giunse a reclamare il sacro animale, Tantalo giurò il falso, macchiandosi così anche di spergiuro. In un’altra variante, ancora più enigmatica, quel cane non era che la dea Rea, trasformata da Efesto.

Hugues Taraval – Il banchetto di Tantalo – Wikipedia, pubblico dominio

Ma la colpa più terribile fu un’altra, un atto che colpì gli dèi al cuore.
Spinto da un’orgogliosa curiosità, o forse da pura follia, Tantalo volle mettere alla prova l’onniscienza divina. Così, durante un banchetto, osò servire agli dèi le carni del proprio figlio, Pelope, per vedere se davvero avrebbero riconosciuto l’inganno. Tutti gli immortali, inorriditi, rifiutarono il pasto sacrilego. Solo Demetra, distratta dal dolore per la scomparsa della figlia Persefone, assaggiò inconsapevolmente una spalla.
Gli dèi, pieni di sdegno, restituirono la vita al giovane Pelope e lo ricomposero, sostituendo la spalla mancante con una di splendente avorio. Non tutti, però, accettarono questa versione: Pindaro racconta che Pelope non fu mai ucciso, ma rapito da Poseidone, che se ne invaghì e lo portò con sé sull’Olimpo come coppiere.

Qualunque fosse la verità, il destino di Tantalo era segnato. Alla sua morte, venne precipitato nell’Ade, condannato a un supplizio senza fine che sarebbe diventato proverbiale: il supplizio di Tantalo.

Bernard Picart – Il supplizio di Tantalo – Wikipedia, pubblico dominio

Il re scontava la pena immerso fino al mento in un lago limpido, sulle cui sponde cresceva un albero colmo di frutti maturi, pere, fichi e mele lucenti. Ma quando cercava di placare la sete, l’acqua si ritraeva; e quando tendeva la mano per cogliere un frutto, i rami si sollevavano, spinti via da un vento improvviso. A tormentarlo ulteriormente, un enorme macigno incombeva sulla sua testa, minacciando di crollargli addosso da un momento all’altro, costringendolo a vivere in un terrore senza tregua.
Alcune tradizioni raccontano persino che Tantalo fosse costretto a sostenere sulle spalle un intero monte, simbolo schiacciante del peso delle sue colpe.

Non fu il solo tra i mortali a subire simili castighi: anche Issione, Tizio e Sisifo conobbero pene eterne. Ma il nome di Tantalo, legato per sempre alla sua fame e sete inappagabili, è diventato il più celebre, simbolo universale del desiderio frustrato e dell’impossibile appagamento.

 

 

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