Nascosto tra le ombre secolari del bosco di Nemi, nei pressi dell’attuale Ariccia, si cela uno dei miti più misteriosi e affascinanti dell’antico Lazio.

Resti del Tempio di Diana a Nemi – Wikipedia – Foto di Livioandronico2013, opera propria rilasciata con licenza CC BY-SA 4.0
Qui, sulle sponde del lago sacro, sorgeva il santuario di Diana Aricina, dea della caccia, della luna e dei boschi. Ma non era sola: accanto a lei, protetto dal silenzio della natura, viveva Virbio, divinità antichissima e avvolta nel mito.
Ma chi era davvero Virbio?
Secondo la leggenda latina, Virbio era il nome con cui tornò alla vita Ippolito, figlio dell’eroe greco Teseo. Condannato a morte da un tragico malinteso e dalle ire di Afrodite, Ippolito fu risuscitato da Asclepio, il dio della medicina, su richiesta della dea Artemide (l’equivalente greca di Diana). Per proteggerlo da ulteriori pericoli, Artemide lo avvolse in una fitta nube, gli diede sembianze di vecchio e lo condusse lontano, in Italia, tra i boschi sacri di Ariccia.
Lì, in un luogo dove la natura regnava sovrana, Ippolito visse sotto il nome di Virbio, che significa “due volte uomo”, un chiaro richiamo alla sua resurrezione. Lontano dalla memoria della morte e dal passato, si unì alla ninfa Egeria, custode delle acque e dei segreti. Ma c’era una condizione: nessun cavallo poteva più avvicinarsi a lui, in ricordo dell’incidente mortale che lo aveva coinvolto nella sua prima vita.
Il culto di Diana e Virbio era unico, quasi selvaggio. Soltanto uno schiavo fuggiasco poteva aspirare al sacerdozio del santuario. Ma il titolo non si otteneva con riti solenni o preghiere: doveva essere conquistato con la spada.

John Robert Cozens – Ariccia – Wikipedia, pubblico dominio
Nel cuore del bosco sacro, una quercia antichissima era vegliata come un totem vivente. Nessuno poteva spezzarne i rami. Eppure, quando uno schiavo osava farlo, era un segno: l’inizio del duello. Il sacerdote in carica, anch’egli un ex schiavo che aveva ucciso il predecessore, doveva affrontare lo sfidante in un combattimento mortale. Solo il vincitore avrebbe indossato i sacri panni del nuovo custode del culto.
Questo rito brutale, noto agli antichi come “Rex Nemorensis”, era l’unico modo per trasmettere il potere. Un ciclo infinito di sangue, fuga, sopravvivenza e sacralità, intrecciato indissolubilmente con la leggenda di Virbio, il dio che morì e tornò a vivere sotto un nuovo nome.
Nel sussurro delle foglie del bosco di Nemi, forse ancora oggi si può percepire l’eco di quei duelli e il mistero di un dio che ha sfidato la morte, per ritrovare pace nel cuore della natura.
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