Il termine metempsicosi deriva dal greco antico: metem (trasferimento) e psyché (anima). Esso indica la trasmigrazione dell’anima da un corpo all’altro dopo la morte. Questa credenza, presente in numerose religioni e dottrine filosofiche, prevede che l’anima si reincarni in corpi umani, animali, vegetali o persino minerali, finché non si libera definitivamente dai vincoli della materia.
Nel mito, il dio Ermes fece un dono al figlio Etalide: gli concesse la capacità di ricordare tutte le sue vite, pur senza renderlo immortale. Questa memoria eterna rese Etalide un essere unico nel panorama mitologico.

Busto di Pitagora. Copia romana di originale greco. Musei Capitolini, Roma. – Wikipedia, pubblico dominio
Proprio grazie a questo tratto leggendario, Pitagora (*), filosofo presocratico, affermava di aver vissuto quattro vite precedenti. Diceva di essere stato prima Etalide, poi Euforbo, il guerriero troiano ferito da Menelao, quindi Ermotimo, colui che avrebbe riconosciuto lo scudo di Menelao in un tempio. Infine, raccontava di essere stato Pirro, un umile pescatore dell’isola di Delo. Durante questi passaggi, la sua anima avrebbe abitato anche animali e piante, e in certi casi sarebbe persino discesa nell’Ade, dove, secondo il racconto, vide Omero appeso a un albero ed Esiodo incatenato a una colonna, puniti per aver parlato degli dèi con troppa leggerezza.
La catena delle reincarnazioni, secondo alcune fonti più tarde, non si fermò con Pitagora: si narra che si sia reincarnato in un uomo di nome Periandro, poi ancora in un altro Etalide e infine in Alco, una donna bellissima e profumata che di mestiere faceva la prostituta.
Considerando un ciclo completo di reincarnazioni della durata di 216 anni, l’ultima apparizione sulla Terra di Pitagora dovrebbe risalire intorno al 1810 d.C.
Molti studiosi ritengono che la teoria della metempsicosi abbia origini orientali e che Pitagora l’abbia importata da terre lontane, forse dall’India, dove ancora oggi questa idea è diffusa. Secondo questa visione, l’anima si reincarna in base alla condotta tenuta nella vita precedente: può salire di livello (diventando, ad esempio, un atleta, un mercante o un osservatore) oppure retrocedere (in un cane, un albero, una pecora o un maiale).

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Alcmeone spiegava la morte come il passaggio da una “fine” a un nuovo “principio”, sottolineando la natura ciclica dell’anima, simile al moto delle stelle. Filolao, altro esponente del pensiero pitagorico, definiva il corpo una “tomba” in cui l’anima è imprigionata per espiare le proprie colpe.
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(*) Pitagora nacque intorno al 570 a.C. sull’isola di Samo, figlio del gioielliere Mnesarco. Intorno ai quarant’anni lasciò la corte del tiranno Policrate e si stabilì a Crotone, in Magna Grecia, dove fondò una scuola filosofica con circa 300 discepoli. Questa comunità osservava regole rigidissime e curiose: non mangiare fave, non spezzare il pane, non toccare galli bianchi, e persino non lasciare l’impronta del corpo sul letto al risveglio.
Quando Leonte, tiranno di Fliunte, gli chiese chi fosse, Pitagora rispose: «Sono un filosofo», coniando così, secondo la tradizione, per la prima volta il termine che ancora oggi usiamo per indicare gli amanti del sapere.
Secondo Dicearco, alla fine della sua vita, Pitagora si ritirò a Metaponto, dove si lasciò morire di fame, stanco di vivere. Un’uscita di scena tanto enigmatica quanto la sua intera esistenza.
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