Nell’antico Egitto, tra sabbia, sole e potere divino, esisteva una dea che univa in sé due forze opposte: la distruzione e la guarigione, il fuoco e la cura, la vendetta e la rinascita.
Il suo nome era Sekhmet, “colei che è potente”.

Il culto di Sekhmet affonda le radici nella città di Letopolis, nel Basso Egitto.
Veniva raffigurata come una leonessa o come una donna con testa leonina, spesso adornata con il disco solare, il cobra sacro (ureo) e il bastone uadj, simboli del potere divino.
Il suo nome deriva dalla parola egizia sekhem, che significa “forza” o “potere”. Non a caso, lo stesso termine designa anche lo scettro del faraone.

Secondo la teologia menfita del Nuovo Regno, Sekhmet era figlia del dio solare Ra, e parte della triade divina insieme al suo sposo Ptah (dio creatore) e al loro figlio Nefertem, dio della bellezza e della guarigione.

Era chiamata anche “La grande, amata da Ptah”, a sottolineare il suo ruolo centrale nell’equilibrio cosmico tra creazione e distruzione.

Ramses e gli dei della Triade di Menfi – Wikipedia, pubblico dominio.

Sekhmet era la dea della guerra per eccellenza, incarnazione dei raggi mortali del sole, dell’aria rovente del deserto, dei venti infuocati che punivano i nemici degli dèi.
Era la giustizia di Ra scagliata contro l’umanità in rivolta, colei che imponeva l’ordine attraverso la forza. Ma non era solo la portatrice di morte. I testi medici dell’antico Egitto, come i papiri Ebers ed Edwin Smith, la descrivono anche come protettrice dei medici e dea della guarigione. I suoi sacerdoti, potenti e rispettati, erano specialisti nella cura delle fratture ossee e delle malattie fisiche.

Sekhmet era temuta anche nell’Aldilà.
Si diceva che sconfiggesse i mostri del caos come Seth e il serpente Apopi, nemici eterni di Ra, avvolgendoli con le sue spire infuocate mentre accompagnava il dio nel suo viaggio notturno.

Il suo carattere pericoloso richiedeva riti precisi, soprattutto durante gli ultimi cinque giorni del calendario lunare, considerati giorni “fuori dal tempo” e quindi carichi di instabilità e rischio.

Copia di un rilievo raffigurante re Amenofi II al cospetto di Hathor e Sekhmet, e vivificato da quest’ultima. – Wikipedia, pubblico dominio

Il mito più famoso che riguarda Sekhmet racconta della collera divina di Ra.
Quando l’umanità complottò contro di lui, Ra inviò Sekhmet sulla Terra per punirla.
La dea, assetata di sangue, iniziò a sterminare sistematicamente gli uomini.
Ma ben presto la distruzione sfuggì di mano. Per salvare ciò che restava del genere umano, Ra dovette fermare la sua stessa figlia: fece versare birra colorata di rosso, simile al sangue, in tutto il paese.

Sekhmet la bevve, credendo fosse sangue, e si ubriacò fino a cadere in un sonno profondo.
Al suo risveglio, non era più la stessa. Il suo spirito bellicoso si era placato e si trasformò in Bastet, la dea felina della gioia, dell’amore e della dolcezza.
Così nacque un doppio volto del sole: uno distruttivo, uno benefico.

Per ricordare quell’evento, gli Egizi istituirono la Festa dell’Ebbrezza, celebrata durante la stagione Akhet (l’inondazione del Nilo), con danze, musica e fiumi di birra rituale, offerti agli dèi e agli uomini per onorare il passaggio dalla furia alla pace.

Sekhmet è molto più di una divinità guerriera: è la personificazione del limite tra vita e morte, tra giustizia e vendetta, tra distruzione e guarigione.
Incarna il potere assoluto, la forza che deve essere rispettata, canalizzata, temuta e venerata.

Il suo mito ci ricorda che anche la potenza più bruciante può trasformarsi, se riconosciuta e compresa, in energia vitale e creatrice.


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